I patrimoni destinati ad uno specifico affare: due modelli a confronto

Scritto da Barbara Palombi

1.1 Premessa  1.2 La separazione patrimoniale  1.3 Primo modello: il patrimonio destinato ad uno specifico affare  1.4 Secondo modello: il finanziamento destinato ad uno specifico affare   1.5 Analogie e differenze  1.6 Conclusioni

 

Nell’ambito della riforma delle società l’istituto dei “patrimoni destinati ad uno specifico affare”, introdotto dalla Legge delega n. 366/2001 costituisce una novità assoluta per il nostro ordinamento.

L’art. 4, quarto comma, lett. b) della Legge mira infatti a “consentire che le società costituiscano patrimoni dedicati ad uno specifico affare, determinandone condizioni, limiti e modalità di rendicontazione, con la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione ad esso; prevedere adeguate forme di pubblicità; disciplinare il regime di responsabilità per le obbligazioni riguardanti detti patrimoni e la relativa insolvenza".

In attuazione di tale disposizione, il D.Lgs. n. 6/2003 configura, nella sezione XI (“Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare”, art. 2447 bis- 2447 decies c.c.), i seguenti due possibili modelli:

1. “Patrimoni destinati ad uno specifico affare”. Con talenuovo istituto, si costituisce all’interno del patrimonio della società, uno o più patrimoni separati, ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad un determinato affare (art. 2447 bis, comma 1, lett. a, c.c.).

2. “Finanziamenti destinati ad uno specifico affare”. Con tale istituto, invece, si è in presenza di un finanziamento proveniente da terzi per uno specifico affare, al rimborso del quale sono in tutto o in parte destinati i ricavi dell’affare medesimo (art. 2447 bis, comma 1, lett. b, c.c.). 

Consentire ad una società di chiedere e ricevere un finanziamento con destinazione specifica, ponendo al servizio di tale finanziamento non l’intero suo patrimonio, ma beni determinati o proventi derivanti dallo specifico affare, queste le linee di fondo dell’istituto in questione.

In quest’ottica, il patrimonio non è più concepito come un complesso unitario di beni e diritti imputabili allo stesso soggetto, ma diviene un insieme di risorse separabili, ancorché facenti capo al soggetto medesimo. Tale separazione, assicurando una funzione autonoma di garanzia e responsabilità connessa alla particolare destinazione, travalica il tradizionale principio di unitarietà o inseparabilità del patrimonio dei soggetti di diritto (persona fisica o giuridica), e pone una deroga al concetto tradizionale di patrimonio inteso come garanzia generale dei creditori e della par condicio creditorum.

La riforma è chiaramente ispirata dal tentativo di introdurre nell’ordinamento giuridico in un quadro di concorrenza con gli ordinamenti stranieri, consistenti vantaggi per le imprese domestiche rendendole maggiormente competitive nel mercato internazionale. Ciò soprattutto in relazione al nostro sistema di finanziamento, che ormai da diverso tempo ha mostrato i suoi limiti, visto che le società italiane si sono trovate a concorrere con imprese estere in grado di emettere una variegata tipologia di strumenti finanziari, per così dire “ibridi”, con caratteristiche intermedie tra azioni e obbligazioni. Colmare questo gap è il principale obiettivo perseguito. Ma non solo. L’intento che ha ispirato il legislatore è altresì da ravvisare, in un’ottica di semplificazione, nella necessità di coniugare la funzionalità dell’istituto con strumenti giuridici non troppo complessi, senza più affrontare necessariamente i tempi e i costi di costituzione, mantenimento e cessazione, connessi alla duplicazione soggettiva[1], legata alla nascita di società controllate dalla stessa società (newcos).

E’ dunque grazie a questi due nuovi istituti che una società per azioni o cooperativa può:

1) dar luogo ad una gestione mirata degli affari, avvalendosi della responsabilità limitata per ogni singolo affare intrapreso; 2) ampliare e diversificare i canali di finanziamento dell’impresa (anche tramite l’emissione di strumenti finanziari partecipativi all’affare), senza dover necessariamente costituire una nuova persona giuridica; 3) diversificare il rischio d’impresa, tramite la delimitazione del rischio inerente il singolo affare (il quale, in caso di esito negativo, potrà al massimo provocare la perdita totale del patrimonio destinato); 4) escludere i partecipanti all’affare dal rischio generale d’impresa; 5) promuovere nuove attività (anche rischiose) senza incidere negativamente sull’andamento dell’attività principale.[2]

 

La separazione patrimoniale

Al fine di chiarire il contenuto della nozione di patrimonio destinato ad uno specifico affare, occorre partire dal concetto di patrimonio separato, con il quale si suole indicare quel fenomeno di distacco di una massa patrimoniale da un patrimonio originario, o di enucleazione all’interno di un patrimonio, di un coacervo di rapporti.

Tale definizione evidenzia la configurazione di una separazione qualitativa oltre che quantitativa, in quanto la destinazione ad uno scopo particolare modifica l’intera fisionomia della massa separata, con inevitabili implicazioni sul regime giuridico applicabile.

In particolare, la separazione, assicurando una funzione autonoma di garanzia e responsabilità in connessione con la destinazione, consente di derogare, entro certi limiti, al principio generale dell’illimitata responsabilità patrimoniale di cui al primo comma dell’art. 2740 c.c., per il quale, il debitore risponde dell’adempimento delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri; nonché al principio della par condicio creditorum di cui all’art. 2741 primo comma c.c., che assicura a tutti i creditori un eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salvo cause legittime di prelazione. Pertanto il titolare di un complesso di beni può agevolmente sottrarre quest’ultimi all’azione esecutiva e alla soddisfazione dei propri creditori generali, esponendoli all’esecuzione forzata di una serie più limitata di creditori.

In altre parole quello che si è inteso fare, è costruire una relazione diretta tra il patrimonio parcellizzato della società e le diverse classi di creditori, ciascuna delle quali potrà agire esecutivamente solo su quella frazione di patrimonio impiegata per l’affare in relazione al quale è sorto il credito.[3]

Più che rilevanza contabile, la parcellizzazione assume valore sul piano della responsabilità.

Il superamento del regime ordinario che poneva uno stretto connubio tra la nozione di patrimonio (e sua inseparabilità) ed il regime di responsabilità patrimoniale illimitata, per la quale il patrimonio sociale è inteso come quel complesso di beni di cui la società è titolare e su cui viene misurata la sua capacità di adempiere le obbligazioni, si giustifica con la particolare destinazione di alcuni beni vincolati al perseguimento di un affare predeterminato. In tal senso la specificazione dell’affare costituisce un limite all’utilizzo dei beni destinati al patrimonio, nel senso che quest’ultimo non può essere utilizzato per attività estranee al compimento dello specifico affare.

Posto dunque che il patrimonio destinato ad uno specifico affare è da intendersi come patrimonio separato a tutti gli effetti dalla società che lo ha creato, preme sottolineare che tale separazione conduce necessariamente ad un regime di autonomia sul piano della responsabilità. Ovvero tale separazione non avviene sul piano dell’appartenenza o imputazione di beni e diritti, bensì su quello della responsabilità patrimoniale, giacchè come si è detto, una parte dei beni della società è riservata al soddisfacimento dei diritti di alcuni creditori soltanto.

Ciò a dire che tale patrimonio destinato non può assolutamente vantare un’autonoma soggettività giuridica, per cui l’unico soggetto di diritto è e rimane la società originaria, essendo il distacco di un insieme di beni, non oggetto di responsabilità, ma mezzo per la sua realizzazione.

Il tutto in linea con quanto il legislatore ha inteso fare: muoversi sul piano della mera responsabilità e quindi nell’ambito del sistema di cui agli art. 2740 e 2741 c.c. E’ questo dunque l’alveo entro il quale orientarsi, nel cui ambito le s.p.a. possono istituire patrimoni endosocietari dedicati a specifici affari (unius negotii), sancendo in relazione ad essi, una serie di regole volte a tutelare se stesse e l’affidamento dei terzi. In quest’ottica, la rapida emersione dei fenomeni di patrimonio separato controbilancia e determina una sorta di progressiva attenuazione del dogma dell’indivisibilità del patrimonio. Ciò in ragione di un’effettiva esigenza di natura economica, posto che l’isolamento delle masse patrimoniali destinate a scopi particolari, rappresenta indubbiamente uno strumento che agevola e stimola i processi di realizzazione del profitto e dell’efficienza.  

Ciononostante la tutela delle ragioni creditorie non perde il grado di principio generale del nostro ordinamento, rimanendo un valore primario del sistema che può retrocedere solo di fronte ad interessi di grado superiore. Ad oggi infatti l’evoluzione della legislazione, nonostante il proliferare d’istituti come il nostro deputati a servire scopi particolari, conferma il carattere inderogabile del principio della responsabilità illimitata del debitore, escludendo la possibilità della libera costituzione di patrimoni separati da parte dei privati.

Se infatti il principio sancito all’art. 2740 c.c. 1 comma ha da sempre rappresentato uno dei maggiori ostacoli verso la libera ammissibilità e l’istituzionalizzazione della prassi del separare, quest’ultima è oggi consentita dalla riforma, ma non del tutto. Dall’analisi della disciplina dei patrimoni separati emerge che la limitazione della responsabilità patrimoniale non può essere rimessa all’autonomia dei privati, dovendo rispondere alla realizzazione di un sistema di interessi che il legislatore ha ritenuto sovraordinato rispetto alla tutela delle ragioni dei creditori particolari.

 

 

Primo modello: i patrimoni destinati ad uno specifico affare

La costituzione del patrimonio destinato ad uno specifico affare (art. 2447 ter c.c.), è il risultato di un procedimento che consta di diverse fasi. Innanzitutto è necessario un apposito atto interno della società, che può consistere alternativamente:

-se lo statuto tace, in una delibera adottata dall’organo amministrativo a maggioranza assoluta dei suoi componenti, che sarà il Consiglio d’Amministrazione (CDA) nel caso in cui la società abbia adottato il modello monistico o tradizionale, ovvero il Consiglio di Gestione (CdG) nel caso in cui la società abbia invece optato per il modello dualistico;

- secondo le diverse disposizioni dettate dallo statuto, in una delibera del Consiglio di Sorveglianza (CdS) o dell’assemblea dei soci anche a maggioranza semplice.

La delibera di costituzione, in quanto diretta a creare un vincolo di destinazione per una parte del patrimonio sociale, ed al fine di tutelare i terzi, deve imprescindibilmente indicare, ai sensi dell’art. 2447 ter, co. 1 c.c.,

a) l’affare al quale è destinato il patrimonio;

b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio (mobili, immobili, crediti, posizioni contrattuali, brevetti, marchi). Sotto altro profilo è auspicabile una sorta di denominazione del patrimonio separato, particolarmente utile quando la medesima società costituisca una pluralità di patrimoni separati.

c) il piano economico-finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio separato rispetto alla realizzazione dell’affare, le modalità e le regole relative al suo impiego, il risultato che si intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi. Il concetto di congruità è fondamentale sia perché rileva ai fini di un futuro accertamento d’impossibilità dell’affare, sia perché, in caso di manifesta incongruità (abusiva destinazione di beni sociali), i creditori particolari possono agire sui beni della società e gli amministratori non sono esenti da responsabilità;

d) gli eventuali apporti di terzi (rappresentati sia dall’emissione di strumenti finanziari sia da beni suscettibili di valutazione patrimoniale),le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell’affare;

e) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare, con la specifica indicazione dei diritti che questi attribuiscono;

f) la nomina di una società di revisione per il controllo contabile sull’andamento dell’affare, quando la società non è assoggettata alla revisione contabile ed emette titoli sul patrimonio diffusi tra il  pubblico in misura rilevante, offerti ad investitori non professionali;

g) le regole di rendicontazione dello specifico affare, idonee ad offrire una chiara e trasparente rappresentazione della gestione dell’affare.

Quanto alle conseguenze scaturenti dalla mancata o imprecisa indicazione degli elementi della delibera, parte della dottrina ha ritenuto che si possa parlare di inefficacia della stessa.[4] Vista però la tassatività dei casi di nullità della società per azioni, pare doversi ritenere che si tratti di un’inefficacia-inopponibilità ai terzi.

La società può emettere ai sensi dell’art. 2447 ter, co 1, lett.e, strumenti partecipativi all’affare, a condizione che ciò sia indicato nella delibera costitutiva del patrimonio destinato, in cui debbono altresì essere specificamente indicati i diritti che tali strumenti attribuiscono. Tali titoli sono strumenti finanziari partecipativi che beneficiano del risultato di una parte di patrimonio destinato ad uno specifico affare, quotati o diffusi tra il pubblico in maniera rilevante ai sensi dell’art. 116 del T.U.F.( D.lg. n.58/1998), non assimilabili né alle obbligazioni in quanto non rappresentano un prestito effettuato nei confronti della società emittente, né alle azioni perché non costituiscono una frazione di capitale sociale della stessa. Di conseguenza possono essere emessi non come titoli di rischio sebbene circoscritto allo specifico affare, quanto come titoli atipici o ibridi (al confine appunto tra azioni e obbligazioni), che conferiscono ai titolari i diritti che derivano da un’associazione in partecipazione.

Alla fase della delibera di costituzione segue poi quella dell’iscrizione nel registro delle imprese (art. 2447 quater). Per realizzare la pubblicità della costituzione, si segue la medesima procedura prevista dall’art. 2436 c.c. per le modificazioni dello statuto: il verbale deve essere obbligatoriamente redatto per atto pubblico, quindi da un notaio, il quale, una volta effettuato il controllo di legalità, ne chiede il deposito e l’iscrizione nel registro delle imprese entro trenta giorni. Va detto che, a differenza delle ordinarie delibere consiliari, la verbalizzazione non ha funzione meramente certificativa, bensì costitutiva perché rappresenta un requisito di validità, pertanto deve essere contestuale alla delibera stessa.

Il controllo può essere svolto in via ordinaria dal notaio, o in via sussidiaria dal Tribunale se il notaio, verificato che non sono adempiute le condizioni stabilite dalla legge, non richiede l’iscrizione della delibera nel registro delle imprese. La comunicazione di rifiuto costituisce il presupposto processuale necessario affinché gli amministratori procedano a presentare nei trenta giorni successivi il ricorso al Tribunale che, previo controllo della legittimità formale e sostanziale di verifica delle condizioni richieste dalla legge, ordina con decreto l’iscrizione nel registro delle imprese. In caso di mancato ricorso, la delibera, non potendo essere iscritta nel registro delle imprese, non è eseguibile ed è quindi inefficace.

Eseguita la pubblicità richiesta, il patrimonio destinato vive di vita propria e non risente delle vicende societarie, ma non diviene giuridicamente dotato di autonomia patrimoniale perfetta, ciò perché come si è detto, la riforma non disciplina il patrimonio separato come un distinto soggetto di diritto, bensì si concentra essenzialmente sul piano della limitazione della responsabilità, delimitata dalle risorse destinate al singolo affare.   

 

Secondo modello: il finanziamento destinato ad uno specifico affare

L’ulteriore fattispecie disciplinata dall’art. 2447 bis c.c. è data dal finanziamento destinato ad uno specifico affare, diverso dal primo soprattutto nel prevedere che la società al fine di finanziare un affare predeterminato, reperisca liquidità dall’esterno, destinando i relativi proventi al rimborso del finanziamento stesso. Con tale istituto la società non crea un patrimonio separato e non destina beni, bensì separa esclusivamente tutti o parte dei futuri proventi derivanti dall’affare.

Pur realizzando una separazione patrimoniale, questa non sussiste a livello di beni e diritti conferiti, già esistenti nel patrimonio della società, ma a livello dei soli proventi futuri di uno specifico affare e dei loro eventuali reimpieghi. Sono questi a costituire un patrimonio separato da quello della società e da quello relativo ad ogni altro finanziamento destinato, ottenuto dalla stessa.

E’ dunque un’operazione che si fonda sull’idoneità dello specifico affare di generare ricavi capaci di autofinanziarsi, anziché sulla solvibilità della società destinataria del finanziamento stesso.  

Si noti come tale modello consente di tradurre nel nostro sistema giuridico, lo schema anglo-americano del non-recourse financing, cioè del finanziamento in cui il finanziatore limita preventivamente le proprie pretese satisfattive ai proventi dell’investimento che ha contribuito a finanziare; e come il legislatore, parlando di patrimonio separato con riferimento esclusivo alla disciplina del finanziamento destinato, riecheggi il secondo comma dell’art. 3 della Legge n.130/99 sulla cartolarizzazione dei crediti. Non a caso infatti l’istituto di cui ci occupiamo costituisce il naturale completamento di quanto previsto all’art. 7 lett. a primo comma Legge n. 130/99 ovvero della subparticipation, particolare operazione di cartolarizzazione attuata mediante l’erogazione di un finanziamento all’originator da parte della Special Purpose Vehicle (o SPV).

L’applicazione di questa nuova disciplina porta dunque ad importanti risultati pratici: per il finanziatore, per il quale a fronte del finanziamento erogato vi sarà la garanzia di un programmato flusso di denaro solo a lui destinato; per il finanziato la concreta possibilità di predisporre un piano finanziario che non coinvolga l’intera impresa e di sopportare così un inferiore costo del finanziamento, in relazione all’opportunità di presentare al mercato un rischio di credito più facilmente determinabile.

Pensato per apportare vantaggi competitivi alle imprese nostrane superando il sistema vigente ante riforma, secondo il quale il finanziamento della società proviene solo dai soci o dal credito bancario e dal capitale di rischio, con l’introduzione di una simile operazione si mira a che il mercato scommetta su un determinato affare, che, ovviamente, deve avere un grado di ragionevolezza tale da convincere i finanziatori. Qui dunque siamo in presenza di una forma di finanziamento nascente da un vero e proprio rapporto contrattuale con un terzo finanziatore, in cui è stabilito espressamente che i proventi dell’affare saranno destinati al rimborso del finanziamento, e per la cui stipula non è richiesto l’intervento del notaio.

Ai sensi dell’art. 2447 decies c.c., il contratto di finanziamento deve essere redatto in forma scritta e contenere tutti gli elementi essenziali dell’operazione, vale a dire:

- una descrizione dettagliata dell’operazione che consenta di individuarne lo specifico oggetto, le modalità ed i tempi di realizzazione, i costi ed i ricavi attesi;

- il piano finanziario dell’operazione, indicando la parte coperta dal finanziamento esterno e quella a carico della società;

- i beni strumentali necessari alla realizzazione dell’operazione;

- le specifiche garanzie che la società offre in ordine all’obbligo di esecuzione del contratto e di corretta e tempestiva realizzazione dell’operazione;

- i controlli che il finanziatore, o soggetto da lui delegato, può effettuare sull’esecuzione dell’operazione;

- la parte che i proventi destinati al rimborso del finanziamento e le modalità per determinarli;

- le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento;

- il tempo massimo di rimborso, decorso il quale nulla più è dovuto al finanziatore.

A fini pubblicitari, copia del contratto deve essere depositata presso l’ufficio del registro delle imprese.

Gli elementi menzionati caratterizzano il contratto di finanziamento e pertanto sono per legge inderogabili. L’unica parte “flessibile” del contratto riguarda la parte dei proventi che sarà destinata al rimborso, potendo il contratto prevedere quanta parte di essa sarà destinata esclusivamente al rimborso e quanta invece ad altre finalità, anche tipicamente connesse alle ulteriori esigenze della società.

 

Analogie e differenze

Le due fattispecie dei patrimoni e dei finanziamenti destinati, rispondono ad una logica comune: quella di facilitare la realizzazione di determinati affari, per cui è possibile ipotizzare che una società faccia ricorso congiunto ad entrambi i modelli al fine di coprire le diverse esigenze che essi consentono di soddisfare. E’ innegabile che tra le due forme di destinazione vi siano elementi comuni, come la possibilità di ricorrere al finanziamento di terzi nello svolgimento di uno specifico affare e l’esistenza di uno o più vincoli di destinazione, tuttavia è possibile individuare alcune non trascurabili differenze che ci permettono di parlare di due ben distinte fattispecie, sebbene entrambe riconducibili all’interno di un unico fenomeno di separazione patrimoniale.

Quello che in particolare è emerso dall’elaborazione delle norme, è certamente l’esistenza di una duplice funzione quella industriale e quella finanziaria riconducibili all’istituto in questione.

La funzione industriale tipica del patrimonio destinato (in senso stretto) sarebbe assolta da quelle norme che, consentendo di isolare i rischi e le responsabilità facenti capo ad uno specifico affare da quelle della società, creano una sorta di segregazione endosocietaria con cui si assolve l’esigenza fortemente avvertita dalle imprese di diversificare il proprio rischio, dislocandolo su fette di patrimonio. Ciò dimostra come l’operazione nel suo complesso sia realizzabile dalla società anche con mezzi propri oltre che con mezzi di terzi e come pertanto la cultura per così dire finanziaristica sia costretta a convivere con quella industriale dell’impresa.[5]

Per altro verso la funzione finanziaria tipica dell’istituto del finanziamento destinato mira a creare uno specifico regime di privilegio a favore di una determinata categoria di creditori, i finanziatori dell’affare. Costoro col mettere a disposizione della società le intere risorse finanziarie occorrenti per la realizzazione di una data iniziativa per la quale la società non rischierebbe nulla, ci danno l’idea di un’impresa come luogo nel quale, con un’immagine efficace, “entra ed esce denaro”[6].

La previsione di un particolare regime di privilegio rende tra l’altro l’istituto funzionale alla realizzazione di operazioni di leveraged financing e di project financing ovvero di quelle tecniche volte ad incentivare l’intervento di capitali privati in importanti progetti industriali.

Al di la di queste esigenze pariteticamente avvertite nel mondo societario ed egualmente garantite dalla riforma, le due diverse tipologie in esame si caratterizzano precipuamente per una diversa struttura costitutiva, molto rigida nel patrimonio destinato, quanto duttile e dinamica nel modello del finanziamento.

Pur essendo entrambe ricondotte all’interno di un unitario fenomeno, le due fattispecie hanno oggetti differenti: da una parte il patrimonio come “insieme di beni e rapporti giuridici”, dunque inteso in senso statico; dall’altra “i proventi di uno specifico affare”, quindi un patrimonio essenzialmente dinamico. Se infatti il patrimonio destinato è sin dalla sua genesi ben determinato in relazione ai beni che lo compongono, il modello finanziario appare come un patrimonio di destinazione di cosa futura, dato che le parti non conoscono al momento della formazione del contratto quali saranno i proventi dell’operazione oggetto di segregazione. Ciò spiega perché non sia qui previsto, a differenza del patrimonio destinato in senso stretto, il limite del 10% alla realizzazione dell’operazione. Perché il vincolo di destinazione non si applica in riferimento a cespiti iscritti in bilancio, ma a proventi futuri che non risultano iscritti nello stato patrimoniale della società ma concorrono solo ratione temporis alla formazione del risultato economico d’esercizio.

 

Conclusioni

L’esame delle disposizioni relative all’istituto dei patrimoni destinati, evidenzia come il legislatore con la riforma del diritto societario e l’introduzione dell’istituto in questione abbia delineato un modello di s.p.a. capace di organizzarsi per operare in contesti e con modalità di finanziamento diverse.

L’obiettivo è stato quello di ampliare le scelte poste a disposizione delle società in materia di struttura organizzativa, ma anche e soprattutto di modalità di partecipazione e di finanziamento alle attività sociali, quest’ultima consentita non soltanto in virtù degli specifici diritti posseduti da ciascun finanziatore, quanto degli ambiti operativi della società verso i quali si nutrano interessi. Ad una segmentazione operativa vera e propria, si affianca pertanto una diversificazione delle modalità di “partecipare alle società”, che hanno la facoltà di emettere, accanto alle azioni con diritto di voto nell’assemblea dei soci, ulteriori strumenti partecipativi per coloro i quali hanno conferito patrimoni riservati ad uno o più specifici affari.[7]

Va da sé che tutto ciò comporta una complicazione del quadro normativo vigente, ed in special modo una moltiplicazione delle problematiche inerenti il funzionamento degli organi di amministrazione, come anche del sistema dei controlli sia interni che esterni alla società che necessitava di un’attenta rivisitazione. A questo ha pensato il D.lgs. 6 febbraio 2004 n. 37, c.d. decreto correttivo, con cui si è realizzata una sostanziale opera di coordinamento degli istituti introdotti dalla riforma del diritto societario, tra cui quello dei patrimoni destinati, con le norme del Testo Unico Bancario e Finanziario. In particolare il decreto consente di estendere alcune delle novità più rilevanti quale quella degli strumenti finanziari partecipativi anche alle società con azioni quotate nonché alle Sim, Sicav e banche, operanti in ambito finanziario.

Indubbia è peraltro, la necessità di interventi legislativi volti a coprire quelle aree dell’istituto ancora incerte o non del tutto disciplinate quali: 1) la natura degli strumenti finanziari di partecipazione ; 2) l’operatività del limite, eccessivamente basso,del 10% del patrimonio netto della società; 3) la mancanza di una disposizione che fornisca al soggetto finanziatore protezione, in caso di atti di disposizione eventualmente compiuti dalla società finanziata sui beni destinati alla realizzazione dell’operazione; 4) la qualificazione del concetto di frutti o proventi dell’affare, se debba intendersi nel senso di determinati beni prodotti o di risultato economico contabile, essendo il vincolo di segregazione un concetto applicabile a specifici cespiti che difficilmente può essere coniugato con il concetto di risultato economico; 5) l’eventuale possibilità di cumulare i due strumenti (patrimoni e finanziamenti destinati) e su come coordinare tra loro le tutele da riconoscere ai creditori; 6) la regolamentazione degli eventuali rapporti intergestori, ossia degli scambi di ricchezza tra la società ed il patrimonio separato. 

 



[1] ZOPPINI A., Primi appunti sul patrimonio separato della società per azioni, in La riforma del diritto societario, Atti dei seminari tenuti nell’auditorium della Cassa Forense in Roma 12 maggio-10 luglio 2003.

[2] ZOPPINI A., op. cit.

[3] RABITTI BEDOGNI C., Patrimoni dedicati, in Rivista del notariato, I, 2002.

[4] INZITARI B., I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Le Società, n. 2 bis, 2003.

[5] F. DI SABATO, Sui patrimoni dedicati nella riforma societaria, in Le Società n.6 2002.

[6] P. FERRO-LUZZI, La disciplina dei patrimoni separati, in Rivista delle società, parte I,2002.

[7] P. VALENTINO, Riforma societaria e coordinamento con il Testo unico della Finanza, in Diritto e Pratica delle Società, n.4-5 marzo, 2004.