Digital Rights Management: problematiche e prospettive dell'encouragement of learning in ambiente digitale

Scritto da Alessandro Romano

Risulterebbe quantomeno incompleta, se non addirittura errata, un'analisi del fenomeno giuridico-tecnologico dei Digital Rights Management che non dedicasse un accenno al suo aspetto eziologico.
La piena comprensione dell'universo DRM non può infatti prescindere da una breve riflessione sulle dirompenti conseguenze, in tema di diritto d'autore, apportate dall'avvento della rivoluzione digitale.
Se è pur vero che il tema settecentesco dell'encouragement of learning permea ancora oggi l'inesauribile dibattito - sociale prima che giuridico - sorto attorno alla natura ed ai contrapposti interessi del diritto d'autore (interesse privato allo sfruttamento economico dell'opera vs. interesse pubblico alla diffusione della cultura), è vero anche che tale natura e tali interessi rischiano di sfumare, di perdere parte della propria identità, se non contestualizzati in ottica digitale.
La rivoluzione tecnologica ha infatti messo in crisi le due condizioni su cui il diritto d'autore predigitale poggiava le proprie basi, vale a dire la produzione e la distribuzione delle singole copie di un'opera: ieri, oggetto esclusivo dell'attività di commercio di pochi soggetti in possesso dei necessari requisiti economici ed organizzativi (gli editori); oggi, attività realizzabile, in astratto, da chiunque disponga semplicemente di una copia digitale dell'opera e di una connessione ad internet.
La facilità di replicazione e di diffusione di una copia immateriale dell'opera - composta di semplici bit - ne consente, in primis, un'infinita duplicazione in copie di qualità equivalente all'originale (per di più a costo zero) e, in secundis, una distribuzione in quantità indefinite, grazie ad internet, ad un numero indefinibile di utenti. Questo binomio, com'è intuibile, dà vita a una circolazione dell'opera in cui l'utente dismette i panni del semplice fruitore per indossare quelli di 'distributore', creando una concorrenza illegale (impensabile in epoca predigitale) a danno dei titolari della privativa monopolistica.
In un simile contesto - stanti la globalità della problematica e l'obsolescenza di una disciplina, quella del diritto d'autore, pensata per la copia materiale - il dibattito giuridico si sofferma ormai non tanto sull'opportunità di un adeguamento del diritto alla tecnologia, quanto piuttosto sulla direzione da imprimere a tale adeguamento: le differenti posizioni della moderna teorica del copyright - tra chi propende per una sua lettura conservatrice, volta ad inasprire il controllo sulle violazioni, e chi invece vede in questo nuovo fenomeno lo spunto tecnologico per dare adito alla libera circolazione delle idee - non possono fare a meno di richiamare alla memoria gli echi ancora vibranti degli albori del copyright, della disputa tra giusnaturalismo e giuspositivismo, tra interessi privati e collettivi, tra istanze economiche e culturali.
A fare la differenza, nel dibattito odierno, è però l'integrazione tra diritto e tecnologia, o, per meglio dire, la presenza di una tecnologia che "si fa diritto", creando pervasive regole di utilizzo dell'opera digitale (non giuridiche ma comunque, nei fatti, vincolanti), alle quali il fruitore deve necessariamente adeguarsi, pena l'impossibilità di accedere al, o di usufruire del, contenuto desiderato.
Tale tecnologia è appunto quella dei Digital Rights Management, una misura tecnologica di protezione nata come risposta al file sharing illegale, ossia alla libera condivisione tra utenti (su sistemi peer to peer o similari) di materiale protetto da diritto d'autore. I DRM sono in grado di gestire e disciplinare autonomamente, in base alle direttive scelte dall'editore, l'utilizzo dei contenuti digitali da parte degli utenti.
Secondo il modello del DRM, tale utilizzo varia a seconda della combinazione tra tre elementi: l'estensione dei diritti concessi all'utente; la categoria di utenti (ad es., paganti e non paganti); il contraccambio (la prestazione offerta in cambio del contenuto).
Questa combinazione è poi tradotta in linguaggio informatico mediante il Rights Expression Language: il REL traduce cioè in un linguaggio comprensibile al device nient'altro che gli EULA (End User License Agreement), ossia gli accordi di licenza con l'utente finale.
Senza addentrarsi in uno specifico esame del complesso funzionamento tecnologico dei DRM, che esulerebbe dallo scopo - qui proposto - di analizzarne le problematiche e le conseguenze giuridiche, basti tenere a mente la lucida e precisa sintesi con cui il Professor Roberto Caso ha evidenziato il potere ad essi connesso: «chi fa uso di un sistema di DRM è in grado di predeterminare chi, dove, come e quando potrà fruire dell'informazione».
Si sta parlando, in buona sostanza, di una protezione tecnologica nata, in maniera del tutto legittima, per proteggere le opere da una diffusione indiscriminata ed illegale mediante il download digitale, ma che finisce per non limitarsi a tale compito, sconfinando in una vera e propria gestione tecnologica, predeterminata a monte, di ogni singolo aspetto collegato alla fruizione del bene digitale.
Una tecnologia, cioè, che da substrato protettivo del diritto d'autore rischia di diventare norma di governo dei contenuti digitali (e, nei fatti, sovente agisce già da tale).
E se tale superamento della dimensione giuridica da parte di quella tecnologica si è verificata e continua a verificarsi, ciò non è certo da imputare a quanti, tra gli editori, perseguono un controllo restrittivo, grazie ai DRM, sul possibile utilizzo dei contenuti pubblicati: essi sono infatti, in qualità di agenti economici, portatori di un interesse di parte alla realizzazione del maggior lucro possibile.
L'inadeguato bilanciamento tra gli interessi pubblici e privati sottesi al diritto d'autore digitale è invece da imputare a chi, come il Legislatore (tanto nazionale quanto sovranazionale), pur rappresentando un'istituzione equidistante dagli interessi di parte, non ha ancora saputo comprendere appieno la natura e la portata del DRM, fermando la propria analisi all'aspetto tecnologico, senza approfondire il connesso aspetto contrattuale, peraltro notevolmente più importante.
Unica fonte giuridica idonea a contemperare gli interessi in gioco resta il Copyright Treaty - stipulato nel 1996 nell'ambito della WIPO (World Intellectual Property Organization): in esso è possibile riscontrare un primo esplicito riconoscimento giuridico della facoltà attribuita alle parti contraenti del trattato (ossia le singole Nazioni) di prevedere un'adeguata tutela contro l'elusione delle misure tecnologiche di protezione, e dunque un primo implicito riconoscimento della legittimità di tali misure.
Il trattato WIPO richiede, come condizione necessaria affinché la tutela possa essere applicata contro i tentativi di elusione del DRM, che tale misura protettiva sia prevista esclusivamente allo scopo di impedire atti non autorizzati dagli autori o vietati per legge a danno delle opere, imponendo dunque un utilizzo del DRM circoscritto alla tutela delle prerogative economiche del titolare dei diritti (leggasi: la tutela del DRM nell'esclusiva veste di misura anticopia ed anti distribuzione di copie illegali dell'opera), e soprattutto legittimando le misure di protezione solamente entro e non oltre i confini necessari a contemperare le esigenze economiche degli editori con i diritti spettanti ai fruitori delle opere digitali.
Diversamente, la Direttiva 2001/29/CE - che pure avrebbe dovuto limitarsi a recepire i principi del Copyright Treaty, armonizzando la disciplina dei paesi europei - va oltre, ampliando oltremodo le facoltà giuridico-tecnologiche dei DRM.
In particolare, il combinato disposto degli articoli 5-6 della Direttiva in discorso - relativi al regime di eccezioni e limitazioni al diritto d'autore e sua applicabilità alle opere protette mediante DRM - crea un contesto giuridico nel quale: in primo luogo, la tutela dell'eccezione di cui all'articolo 5, par. 2 (copia privata di un'opera protetta da DRM) è meramente discrezionale e non obbligatoria, lasciando libertà di scelta applicativa ai singoli Stati membri; in secondo luogo, l'applicabilità di eccezioni e limitazioni al diritto d'autore è dall'art. 6 par. 4 subordinata alla «mancanza di misure volontarie prese dai titolari»; in terzo e più importante luogo, l'applicabilità di eccezioni e limitazioni è esclusa quando i contenuti digitali siano messi «a disposizione del pubblico sulla base di clausole contrattuali conformemente alle quali i componenti del pubblico possono accedere a dette opere e materiali dal luogo e nel momento scelti individualmente».
Quest'ultimo punto vale a significare che quando un'opera digitale è distribuita online decade completamente e non trova applicazione alcuna il regime di eccezioni e limitazioni al diritto d'autore. Poche, e non certo idonee a ridurre significativamente il problema, le deroghe previste in proposito dai considerando numero 50 e 57 della medesima Direttiva in tema - rispettivamente - di programmi per elaboratore e di privacy.
Una normativa di riferimento, quella comunitaria, che si dimostra dunque inadeguata a fronteggiare la trasversalità giuridica dei DRM, derivante non tanto (o, quantomeno, non solo) dalla sua natura tecnologica, suscettibile di interagire con più settori del diritto, quanto piuttosto dal suo strettissimo rapporto con le clausole della licenza d'uso del contenuto digitale.
Tale inadeguatezza comporta, come appena visto, inique conseguenze in merito al fair use digitale (eccezioni e limitazioni), un ambito in cui il Legislatore comunitario si libera da ogni responsabilità derivante dal suo primario ruolo sociale addossando la questione all'autonomia negoziale privata.
Ma ancora, sempre in riferimento al rapporto tra contratto e tecnologia, la disciplina si mostra tanto più inadeguata quanto più è complessa la materia giuridica con cui il DRM convive: in relazione agli EULA, in relazione cioè all'utilizzo dell'opera digitale consentito e voluto dal titolare del diritto d'autore, i DRM si manifestano come fonte di potere contrattuale, traducendo le clausole dell'accordo in regole di utilizzo, ed impoverendo ulteriormente le prerogative dei consumatori, già soverchiate dalla disarmonia informativa connaturata ai contratti standardizzati. Il tutto in un contesto in cui la tecnologia anticipa il diritto, offrendo mediante i DRM una soluzione protettiva ex ante, che garantisce ai titolari del diritto l'impossibilità materiale, per l'utente, di porre in essere i comportamenti vietati dalle clausole contrattuali.
Ma la trasversalità giuridica dei DRM va oltre il pur importante legame con le clausole contrattuali della licenza d'uso; anzi, proprio tale legame costituisce lo spunto per la creazione di un non necessario appiglio tra DRM e altre prospettive giuridiche, come ad esempio la privacy degli utenti.
Oggi, infatti, l'utilizzo dei beni digitali avviene in una piazza globale, la rete, in cui ogni utente è facilmente identificabile e riconoscibile, quantomeno negli aspetti della sua personalità che si estrinsecano nelle scelte di consumo; di conseguenza, il «diritto di mantenere il controllo sulle proprie informazioni personali», formulazione che secondo Stefano Rodotà declina ed esprime la più corretta accezione digitale dell'originario right to be left alone, viene sconvolto dai DRM: il diritto alla privacy viene in tal senso e sotto questi profili accantonato, e la libertà decisionale, tradizionalmente garantita in capo agli utenti, ne risulta inibita. L'utente rischia così di doversi rassegnare a concedere a terzi la conoscenza dei propri dati personali, in un contesto in cui il do ut des tra profilazione e fruibilità del bene digitale, prendendo a prestito le parole di Dave Winer, equivale a conseguire il vantaggio di non pagare affitto, cibo e vestiti, a patto però di vivere in una casa dai muri di vetro.
Se le notevoli ingerenze dei DRM nella vita digitale degli utenti costituiscono una realtà, è soprattutto a causa del via libera che il legislatore comunitario del 2001 ha lasciato alla più preoccupante e delicata tra le facoltà connesse a tale tecnologia: l'autotutela del contenuto, ritenuta in ambiente digitale come un compromesso necessario a contemperare i diritti dei consumatori e l'esigenza di porre un argine alla copia illegale.
Autotutela - che per il DRM andrebbe definita 'preventiva' - significa essenzialmente idoneità della protezione non a sanzionare ex post, per via tecnologica, le violazioni dell'accordo di licenza, ma addirittura a prevenire ogni eventuale illiceità comportamentale dell'utente in relazione al bene digitale. Idoneità che interviene ex ante, vanificando ogni ponderazione giuridica sulla concreta sussistenza del comportamento illecito, escludendo il bilanciamento tra interessi, eliminando la necessaria presenza di un giudice terzo e imparziale che dirima la controversia sulla liceità del comportamento tenuto dall'utente mediante l'applicazione della norma al caso concreto.
Il DRM stabilisce aprioristicamente quali siano le condotte vietate - spesso andando in senso più restrittivo rispetto alla lettera della legge - e diviene dunque, simbolicamente, legislatore e giudice della fruizione dei contenuti digitali.
Il tutto in presenza di una normativa di livello comunitario che, come si è detto, analizza il fenomeno dal punto di vista tecnologico, normandone gli aspetti giuridici, ma dimenticandosi della necessità di una lettura simultanea di tecnologia e diritto, essenziale a risolvere le questioni poste al confine tra le due realtà.
Il contesto digitale mostra, in definitiva, che i DRM, per le loro innumerevoli sfaccettature, sono sempre più suscettibili di essere considerati - più che il risvolto tecnologico di una scelta legislativa - una vera e propria scelta normativa, intesa in senso atecnico come scelta che disciplina e regola una determinata fattispecie (in questo caso, l'utilizzo del bene immateriale); una scelta, però, compiuta da soggetti, i titolari del diritto d'autore, che non hanno né la legittimità né la sensibilità per porla in essere.
Si avverte, pertanto, la necessità di un inquadramento legislativo del DRM che interrompa una volta per tutte il malcostume dello stiracchiamento di vetuste e inadatte categorie giuridiche a fattispecie del tutto nuove, andando invece a disciplinare il fenomeno tecnologico e le sue implicazioni giuridiche partendo da una concreta, acuta e completa analisi del fenomeno stesso, per poi regolamentarlo con coerenza e puntualità in relazione a tutti gli interessi coinvolti.
Si badi bene, oggetto di tali critiche e di tali perplessità non è certo il DRM in quanto tale: i radicali sconvolgimenti apportati dal digitale nell'ambito del diritto d'autore, anzi, giustificano pienamente la preoccupazione circa gli interessi economici coinvolti e legittimano di certo la previsione di un apparato giuridico-tecnologico in grado di prevenire e impedire le violazioni di quello che resta pur sempre un diritto proprietario con i suoi corollari economici, ossia il diritto d'autore.
Tuttavia, altro è la tutela giuridica di un diritto economico e la prevenzione degli illeciti; altro è l'estensione incondizionata e ingiustificata di tale protezione, capace di irrompere nella quotidianità del rapporto utente-opera digitale.
Prevenire gli illeciti e difendere i diritti di chi investe fatica intellettuale o danaro in un'opera, aspettandosi un ritorno economico, è giusto e doveroso; ma il timore che le violazioni digitali del diritto d'autore possano scombussolare le fondamenta su cui si regge l'economia delle opere protette non può certo giustificare un'ingerenza e una pervasività tali da compromettere la sfera di legittimo utilizzo di un contenuto regolarmente acquistato. È qui che si gioca la partita del DRM, è su questo punto che il Legislatore dovrebbe intervenire energicamente per ristabilire l'equilibrio tra i contrapposti interessi sottesi al diritto d'autore: non sull'an della protezione tecnologica, ma sul quomodo.
Inutile quindi spendere ulteriori parole sulla legittimità dei DRM, o comunque di una qualche forma di protezione tecnologica. Si dovrebbe, invece, porre l'accento della riflessione su quel che i DRM possono fare, e in che modo. Si dovrebbe, in definitiva, individuare normativamente, e con esattezza, il punto di equilibrio tra la tutela del diritto proprietario, mediante controllo dei DRM, e il diritto degli utenti a godere liberamente del bene digitale acquistato, in maniera tale da impedire che la dimensione tecnologica continui a imporre limiti di fruizione maggiori di quelli normativamente previsti.
Così ipotizzato, peraltro, tale punto di equilibrio rispetterebbe esattamente i principi in materia di diritto d'autore digitale fissati dai WIPO Treaties.
Viceversa, continuando sulla strada delle restrizioni, sulla strada delle rigide imposizioni di utilizzo, si continuerà anche a mortificare esclusivamente i diritti di chi acquista regolarmente contenuti digitali, lasciando invece campo libero a chi, data l'inesistenza di un DRM incrollabile, continua ad usufruire del file sharing illegale.
Torna alla mente, in questo senso, una nota pubblicata dal compianto Steve Jobs nel 2007, dal titolo Thoughts on Music, in cui la relazione tra musica e DRM era articolata su quattro argomentazioni: la prima, che i DRM non avrebbero comunque mai rappresentato una tecnologia impenetrabile; la seconda, che le restrizioni imposte dai DRM colpiscono solo chi acquista musica legalmente, non risolvendo invece il problema relativo al download illegale; la terza, che tali restrizioni sono passibili di invogliare gli utenti a cercare musica in formato non protetto, che solitamente è veicolata tramite forme illegali di distribuzione; la quarta, che la musica su CD è sempre stata venduta senza DRM, ottenendo comunque grande successo di vendite.
Il discorso è chiaramente estensibile solo in parte dal contesto musicale alla generalità dei contenuti digitali protetti da diritto d'autore, e va inoltre mitigato dalle istanze di chi, investendo soldi nella produzione e nel rilascio delle opere dell'ingegno sul mercato, richiede un'adeguata protezione tecnologica per il proprio investimento.
Tuttavia, le parole di Steve Jobs rappresentano un interessante spunto di riflessione. Perché se è vero che la dimensione digitale, per le sue peculiarità, richiede accorte misure protettive per salvaguardare l'interesse privato alla realizzazione di un lucro sull'opera, è altrettanto vero che il DRM, allo stato delle cose, finisce per essere fonte di potere contrattuale, per tradurre le clausole contenute nella licenza d'uso in realtà giuridica, per governare in via diretta le possibilità di fruizione del contenuto digitale, per diventare esso stesso norma di tutela degli interessi dei titolari dei diritti, garantendo loro un'efficacia giuridica maggiore di un normale contratto, nonché la piena effettività ex ante delle clausole dell'accordo.
Risulta di tutta evidenza, insomma, che la tecnologia DRM, per come è al momento concepita e normata, finisce per accantonare ad infinitum l'interesse pubblico alla diffusione della cultura, il cui necessario bilanciamento con l'interesse privato rappresenta invece da sempre il punto di equilibrio del diritto d'autore. Un equilibrio, oggi, estremamente precario.