La calda estate dei mercati finanziari

Calda e  movimentata. Sul piano industriale, regolamentare e dall’ennesima crisi di fiducia nelle banche (e fra le banche) e nelle società di rating innescata dai mutui subprime. E il nostro paese ha giocato un ruolo di primissimo piano sia nella guerra tra listini sfociata nel matrimonio Borsa di Milano – London Stock Exchange che nella corsa all’integrazione regolamentare internazionale che ha portato al varo del decreto legislativo di recepimento della Mifid in pieno rispetto dei tempi stabiliti a livello europeo.
Come dichiarato da Massimo Capuano, AD di Borsa Italiana, i contatti con Clara Furse, numero uno di LSE, sono iniziati nella primavera di quest’anno e lo scorso 8 agosto si è avuto il via libera delle assemblee che con due votazioni praticamente in simultanea hanno approvato la fusione senza intoppi. A Milano c’è stato un solo intervento, nel quale un azionista chiedeva ragguagli sull’imposta di bollo sulle transazioni della Borsa inglese. La questione fiscale rappresenta una delle differenze più marcate e quindi uno dei più grossi ostacoli alla operatività quotidiana: enorme il divario sia in termini di commissioni – 3,5 euro contro l’1 per mille a transazione e lo 0,50% di fissati bollati sui contratti di borsa – che di imposte sulle plusvalenze – per noi 12, 50% secco come imposta sostitutiva, da loro i guadagni anno a finire sui redditi complessivi con aliquote marginali rilevanti soprattutto per chi dichiara cifre consistenti. Poco pregnante la considerazione che ognuno paga il fisco a casa propria, è evidente che i prezzi praticati dai broker ai clienti riflettono prezzi diversi praticati dalle borse agli intermediari stessi; Londra è una delle più care e Milano in assoluto la più economica. In ogni caso, anche se l’effettiva aggregazione tra la City e la Borsa italiana è prevista per i primi di ottobre l’operazione può dirsi conclusa, con il risultato di una Superborsa il cui modello industriale può contare su business apparentemente molto complementari
[1], essendo LSE molto forte sul mercato azionario e il nostro MTS sul mercato all’ingrosso dei titoli di stato, Londra ha sicuramente una piattaforma di trading più moderna mentre le nostre strutture di post trading sono più efficienti; e così sono previste dal 2011 sinergie per 30 milioni dal lato dei costi ed altrettante dal lato dei ricavi. Inoltre, anche se Il Ceo di LSE ha dichiarato nei giorni scorsi che “ciò che conta è l’efficienza di una Borsa”, è chiara l’importanza strategica del poter contare, nella competizione con gli altri listini europei e mondiali, sul 48% della capitalizzazione complessiva delle società dell’indice FTSeurofirts, il primo posto per gli scambi elettronici di Etf e “securitised derivatives” e il primato negli scambi elettronici a reddito fisso. Gli effetti dell’aggregazione sul piano internazionale sono infatti sotto gli occhi di tutti ed evidenziano come si tratti di un’ alleanza contro il listino elettronico americano. Con la creazione della holding il Nasdaq vede diluita la partecipazione detenuta in LSE dal 31 al 22 % (contro il 28 detenuto dalle banche italiane, il primis Unicredit group, Intesa Sanpaolo e Mps) e non esprimerà nessuna posizione nel cda che consterà di cinque italiani e sette inglesi. Del resto per Bob Greifeld, numero uno del Nasdaq, la situazione non è molto più rosea anche sul versante Omx, dove è costretto a raccogliere la sfida di Dubai: il listino degli Emirati Arabi ha acquistato il 4,9% della società che raggruppa le Borse di Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Paesi Baltici e sarebbe pronto a salire fino al 27,4 della Borsa nordica. Probabilmente questi mutamenti di scenario sono figli di un processo iniziato trent’anni fa, con l’avvento dei computer e con il passaggio, nel 1979 a Londra, dalla Borsa gridata a quella elettronica; è stata la tecnologia a rivoluzionare i sistemi di negoziazione e a creare nuovi tipi di operatori, il resto lo ha fatto il mercato. E il mercato oggi è già di fatto globale e vicino alla negoziazione 24 ore su 24.
E un mercato di questo tipo richiede regole e controlli comuni, le operazioni di aggregazione dei mercati sono un vantaggio per il sistema paese che le ospita solo se generano efficienza per gli operatori che utilizzano quei mercati e se è vero che tra essi rientrano, insieme ad intermediari ed imprese che si vogliono quotare, anche i risparmiatori, non si può negare che l’Italia sta giocando scrupolosamente il suo ruolo; è dello scorso agosto il via libera definitivo del Consiglio dei Ministri al decreto legislativo di attuazione della direttiva Mifid. È l’acronimo di Financial Instruments directive è la Direttiva 2004/39/Ce che sostituisce ed abroga la direttiva del 1993 sui servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari ed è una delle pietre angolari del piano di azione per i servizi finanziari che punta a creare un mercato unico in Europa. Il decreto Mifid ha l’ambizione di voler cancellare tutte le cattive abitudini che da sempre falsano i mercati in generale ed in Italia in particolare. I principali cambiamenti si possono rintracciare in sei punti chiave:

  1. Abolizione della regola della concentrazione. Le contrattazioni azionarie potranno avvenire indifferentemente in un mercato regolamentato, in un sistema multilaterale di negoziazione o per il tramite di un intermediario internalizzato; è la misura più forte, si mira ad aumentare la concorrenza e ridurre i costi di negoziazione. Per i grandi clienti ed i professionisti i vantaggi saranno innumerevoli, ma sul fronte piccoli investitori nasce qualche preoccupazione in materia di trasparenza, soprattutto dei prezzi (anche se un obbligo di disclosure mitiga il problema).
  2. Consulenti finanziari. Viene introdotta la possibilità per le persone fisiche di prestare servizi di consulenza in materia di investimenti; un apposito organismo terrà un albo con il potere di sospendere e radiare chi commetterà infrazioni.
  3. Consob per Borsa italiana e Banca d’Italia per Mts detteranno con regolamento i criteri per adeguare le proprie normative sull’ammissione alle negoziazioni.
  4. La vigilanza. Il decreto legislativo amplia e definisce nuovi principi di regolamentazione definendo anche nuove modalità di collaborazione tra autorità.
  5. Il conflitto di interesse.  Gli intermediari sono obbligati ad adottare ogni misura ragionevole per identificarne il rischio e gestirlo in modo da assicurare che non incidano negativamente sugli interessi del cliente
  6. Le categorie. Gli utenti vengono suddivisi in tre categorie, a seconda della protezione da applicare loro: controparti qualificate, clienti professionisti, clienti al dettaglio. Per quanto riguarda  gli ultimi, gli intermediari sono obbligati ad acquisire le informazioni necessarie a valutare l’adeguatezza della consulenza prestata.

Infine la crisi mutui subprime scoppiata a pochi giorni dalla pubblicazione di un bollettino Financial Times che rivela un inspiegabile rialzo delle azioni delle società bersaglio nel 60 % delle maggiori acquisizioni effettuate su società americane e dal conseguente diffondersi del sospetto “insider”. Ogni crisi finanziaria ha il suo colpevole, e se nello scandalo Enron del 2002 è stato (o è stato individuato nelle) società di revisione oggi tocca alle società di rating, ed in particolare alle tre principali Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch. Esse giocano un ruolo di controllo di primaria importanza: alcuni fondi possono investire solo in titoli che godano della tripla-A e il loro giudizio è l’unico che conti per la Sec. Ma come per le società di revisione il rischio di conflitto di interessi è intrinseco nel loro modello di business: il rating è pagato dall’emittente e non dall’investitore. Così da qualche anno le agenzie hanno cominciato ad assegnare il voto massimo non solo ad obbligazioni emesse da debitori sicuri, ma anche a prodotti strutturati estremamente complessi creati dalle banche d’affari la cui solidità deriverebbe dalla diversificazione delle obbligazioni sottostanti. L’allarme fatto scattare dalla crisi dei mutui americani è ancora più preoccupante se si pensa al compito che Basile2 affida alle agenzie: fare da riferimento nella valutazione del rischio per tutte le banche che non possono dotarsi di sistemi di rating interni. Le agenzie americane sono dunque sul banco degli imputati per aver continuato a dare giudizi positivi sulla qualità e la rischiosità dei titoli legati alle concessioni di prestiti immobiliari senza garanzie e così agendo hanno facilitato l’ampliarsi della crisi tradendo l’importanza politco-economica del ruolo che il sistema riserva loro: determinare, influenzare e indirizzare l’allocazione del risparmio.


[1] Lo ritiene anche l’Antitrust che ha approvato la fusione proprio in ragione della complementarità di Borsa italiana con Lse che, secondo il garante della concorrenza, non appaiono allo stato configurabili come effettivi concorrenti nella offerta di servizi di quotazione, informativi o di post trading sia in termini di presenza geografica che di contenuto dei servizi offerti. Il via libera è stato facilitato dalla garanzia, da parte di Lse che le commissioni di negoziazione non subiranno alcun aumento in relazione alla prospettata migrazione dei servizi di Borsa italiana sulla piattaforma TradeElect oggi utilizzata dalla società britannica.