L. 151/1975: la riforma del diritto di famiglia

 

Legge n°151 del 19 maggio 1975: la riforma del diritto di famiglia 

La legge n°151 del 19 maggio 1975, discende da un progetto di revisione della disciplina codicistica tendente all’adeguamento ai principi costituzionali di eguaglianza tra coniugi e di ampia tutela della filiazione naturale. Essa ha investito l’intero campo del diritto di famiglia. Dall’atto di matrimonio, alle cause della sua invalidità, ai rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, alla loro separazione, dalla potestà dei genitori alle successioni.

Sono stati dunque coinvolti principi che vanno oltre la parità tra coniugi e tra le diverse categorie di figli. Ne risulta una riforma che si adegua ai principi costituzionali, all’evoluzione della società ed a quel modo di intendere la famiglia come società naturale fondata, oltre che sull’eguaglianza, anche sull’autonomia, sul rispetto degli individui e sulla loro comune solidarietà.

Le innovazioni più importanti che, hanno permesso di applicare praticamente i principi costituzionali, sono le seguenti:

    • La tutela della libertà matrimoniale. Occorre che il consenso sia prestato consapevolmente da entrambi i coniugi.
    • L’instaurazione di un rapporto paritario tra coniugi nella direzione della famiglia, sia in relazione ai rapporti personali, che patrimoniali e con i figli.
    • L’introduzione del regime di comunione legale dei beni.
    • Il riconoscimento dei figli adulterini. Uguali diritti e doveri per i figli legittimi e naturali.
    • Il diritto del minore di vivere nella propria famiglia, o comunque in una famiglia nella quale poter sviluppare, nel modo migliore, la propria personalità.
    • L’ammissibilità di una illimitata ricerca giudiziale della paternità naturale.
    • Il miglioramento della posizione successoria del coniuge e dei figli naturali.
    • La previsione dell’intervento del giudice in alcuni casi di contrasto tra coniugi nella direzione della vita familiare.


La riforma del 1975, si inserisce in una prospettiva ampia di revisione degli strumenti normativi della nuova realtà sociale, che ha avuto inizio con l’entrata in vigore della Costituzione, con le sentenze della Corte di cassazione e con la legge 1 dicembre 1970 N° 898 che disciplina il divorzio.

Sicuramente, la suddetta riforma, ha permesso di abbandonare la concezione gerarchica della famiglia e le ingiuste differenze tra figli naturali e legittimi presenti nel codice del 1942, che impedivano l’attuazione dei principi costituzionali. 

Il Matrimonio 

Nella definizione costituzionale, il matrimonio è considerato il fondamento della famiglia.

Riguardo al matrimonio, ciò che contraddistingue la riforma del 1975 dalla precedente disciplina codicistica, è l’estensione del principio consensualistico allo svolgimento complessivo del rapporto coniugale e dell’intera disciplina della famiglia.

La famiglia regolata dal diritto è soprattutto quella legittima, nonostante l’esistenza di altre tipologie di famiglia, ad esempio la famiglia di fatto e la famiglia ricostituita.

Gli altri tipi di famiglia sono disciplinati, per equiparazione, alla famiglia legittima.

Nel Codice civile, il matrimonio è definito come atto, cioè il consenso che si scambiano due persone e come rapporto tra le stesse, dunque, comunione materiale e spirituale. Quando tale comunione termina, vi è lo scioglimento del matrimonio.

     Il nostro Codice civile, garantisce la libertà matrimoniale, cioè  la massima libertà dei nubendi all’atto della costituzione del vincolo.

Condizione essenziale per contrarre matrimonio è il consenso degli sposi, espresso liberamente, non condizionato da fattori esterni. L’ufficiale di stato civile, deve ricevere la dichiarazione delle parti di volersiprendere rispettivamente in marito in moglie (art.107).

L’art.84 del Codice civile dichiara che non possono contrarre matrimonio gli interdetti ed i minori di età, in altre parole i minori di anni diciotto.

Il limite di età è il medesimo per entrambi i sessi, poiché si parla di maturità psicologica e intellettuale. Tuttavia chi ha compiuto sedici anni, può proporre istanza al Tribunale, che, accertata la sua maturità psico-fisica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può con decreto emesso in camera di consiglio, ammettere per gravi motivi al matrimonio.

Tali motivi devono essere seri ed in più suscettibili di verifica oggettiva. Bisogna poter dimostrare la fondatezza delle ragioni addotte.

Non si può  dare una definizione generale di “gravi motivi”, poiché vanno determinati di volta in volta, con riferimento all’interesse del minore.

Soprattutto occorre evitare che il matrimonio del minore sia un matrimonio riparatore. Si deve valutare il rapporto tra sposi, la sua stabilità e l’esistenza di un concreto programma di vita comune.

Altri impedimenti alla celebrazione del matrimonio sono: il vincolo di un precedente matrimonio, l’esistenza di un rapporto di parentela ed affinità tra i due sposi, il lutto vedovile (per evitare conflitti tra diverse presunzioni di paternità.

Non può  inoltre esservi matrimonio tra chi è stato condannato per omicidio ed il coniuge della persona offesa dal delitto.

La celebrazione può svolgersi secondo rito: civile, religioso cattolico concordatario, religioso acattolico.

Il matrimonio civile “deve essere celebrato pubblicamente nella casa comunale davanti all’ufficio dello Stato civile al quale fu fatta richiesta di pubblicazione, in presenza di due testi, anche se parenti degli sposi” (art106). Il pubblico ufficiale, “riceve da entrambe le parti, la dichiarazione che esse si vogliono prendere, rispettivamente, in marito e moglie e di seguito dichiara che essi sono uniti in matrimonio” (art.107).

Il matrimonio civile può essere dichiarato nullo se, sussistono i suddetti impedimenti ed in più se il consenso all’atto sia stato estorto con la violenza o dal timore della gravità derivante da cause esterne.

È proprio con la riforma del 1975 che il timore viene considerato un vizio della volontà e in quanto tale una causa di annullabilità del matrimonio.

Il timore può essere causato da un fatto naturale o da comportamenti umani e deve avere due caratteristiche: l’eccezionale gravità (riferendosi alla situazione e al danno) e la derivazione da cause esterne allo sposo (il matrimonio non viene imposto, ma rappresenta il modo per sottrarsi al male).

Per violenza si intendono le minacce rivolte da un soggetto ad un altro, con il fine di indurlo a contrarre matrimonio.

La riforma, ha introdotto alcuni cambiamenti significativi anche riguardo altre cause di invalidità del matrimonio: l’errore e la simulazione.

Il Codice precedente, prevedeva l’annullamento per errore solo in pochi casi eccezionali. L’attuale Codice, invece, non privilegia più l’indissolubilità del vincolo rispetto alla tutela del singolo.

Accanto all’errore sulla persona è stato introdotto l’errore sulle qualità. L’errore rileva se determinante del consenso e se riguarda:

    • l’esistenza di una malattia fisica, psichica o di una deviazione sessuale tale da impedire il normale svolgimento della vita coniugale;
    • l’esistenza di una sentenza di condanna per delitto colposo alla reclusione inferiore ai cinque anni;
    • la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale
    • la condanna per delitti concernenti la prostituzione a pena non inferiore ai due anni;
    • lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore.


     Colui che già prima del matrimonio è a conoscenza delle condizioni fisiche del coniuge, non può assolutamente richiedere l’annullamento del matrimonio.

Anche l’introduzione della nullità per simulazione è una novità che si deve alla suddetta riforma. Si ha simulazione, quando i coniugi hanno deciso, prima della celebrazione, di non adempiere gli obblighi e non esercitare i diritti discendenti dal vincolo. Quando si vogliono ottenere i vantaggi derivanti dal matrimonio, ad esempio l’eredità o la cittadinanza.

Nel caso della simulazione, l’azione può essere proposta da entrambi i coniugi, ma solo se non c’è stata convivenza o se non è trascorso un anno dalla celebrazione.

Il matrimonio contratto per scherzo, non è annullabile, ma nullo.

La prole nata da matrimonio nullo o annullabile rimane legittima, a meno che l’invalidità non sia dovuta alla mancanza di libertà di stato, o al legame di parentela o affinità. In questo caso i figli acquistano la stato di naturali riconosciuti.

I coniugi in buona fede conservano i diritti acquistati con il matrimonio, fino alla dichiarazione di nullità o alla pronuncia di annullamento. Hanno diritto ad una indennità risarcitoria oppure ad un assegno a titolo di risarcimento.

Secondo le norme del Concordato tra la Santa sede e l’Italia, legge n°810 del 1929, con il matrimonio concordatario, il matrimonio religioso, acquista, per lo Stato italiano tutti gli effetti civili.

Ciò a condizione che, l’atto venga trascritto nei Registri dello Stato Civile, le pubblicazioni siano affisse anche nella casa comunale ed il sacerdote legga agli sposi i seguenti articoli:

-Art.143 c.c. (diritti e doveri dei coniugi) Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri.

Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione.

Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.

-Art.143 bis (Cognome della moglie). La moglie aggiunge al proprio cognome, quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze.

-Art.144 c.c. (indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia) I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa.

A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato.

-Art.145 c.c. (intervento del giudice) In caso di disaccordo ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l’intervnto del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per quanto opportuno, dai figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una soluzione concordata.

Ove questa non sia possibile e il disaccordo concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, il giudice, qualora ne sia richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi, adotta, con provvedimento non impugnabile, la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia.

Proprio questi articoli sono tra i più significativi della conformità delle norme del Codice civile alla Costituzione. Anche nel corso della celebrazione del matrimonio religioso cattolico, deve esservi la lettura dei sovracitati articoli. Il matrimonio acattolico, è quello celebrato di fronte a ministri di culto non cattolico.   

Il rapporto tra coniugi 

Il principio costituzionale sancito dall’art.29, 2°comma “Il matrimonio è fondato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, ha trovato piena attuazione nell’ordinamento solo con la riforma del 1975.

La preesistente disciplina, proponeva un modello di famiglia, diffuso nella realtà del tempo, fondato sulla supremazia del marito e sulla diversificazione dei ruoli dei coniugi.

Era l’uomo il capofamiglia e a lui spettavano le scelte di vita che la riguardavano, compresa la potestà sui figli.

Diversi erano anche i doveri che scaturivano dal matrimonio. Il marito doveva proteggere la moglie, provvedere al suo mantenimento, fissare la residenza familiare. Era responsabile della violazione del dovere di fedeltà solo qualora avesse commesso adulterio in forma tale da costituire ingiuria grave per la moglie.

Al marito spettavano le attività  lavorative extra-domestiche, alla moglie il lavoro casalingo e la cura dei figli.

Solo con la riforma si realizza pienamente l’uguaglianza familiare, i coniugi acquistano i medesimi diritti e doveri, ad entrambi spettano le decisioni relative alla vita familiare.

Ai diritti e doveri reciproci dei coniugi non mutati: fedeltà, coabitazione e assistenza, si somma il dovere di collaborazione.

Con l’attuazione del principio di parità morale e giuridica dei coniugi, la riforma conferisce rilievo alla posizione della donna e della famiglia.

L’avere posto sullo stesso piano il marito e la moglie nella direzione della vita familiare e nella gestione del rapporto educativo con i figli è uno dei meriti fondamentali di questa riforma.

Eliminando lo stato di soggezione da sempre riservato alla donna la suddetta legge di riforma, ha permesso di attuare il principio di eguaglianza giuridica e morale, quale sintesi dei valori spirituali di cui si alimenta la vita coniugale e familiare.

Tali garanzie formali di eguaglianza, costituiscono la condizione di progresso verso una autentica parità  morale tra marito e moglie.

Anche la sostituzione del regime di separazione dei beni, con quello di comunione, opera in tal senso, evitando quella soggezione, anche economica, cui era costretta la donna.

Alla donna, in quanto moglie e madre, si tenta di assicurare quello svolgimento della personalità, nel rispetto della sua volontà ed autonomia, garantito a dall’art.2 della Costituzione. All’autonomia morale, si affianca quella nella precisazione degli indirizzi di governo della famiglia, nell’educazione dei figli, nella gestione della vita familiare. Per la tutela di queste prerogative, ci si può rivolgere al giudice.

Compartecipazione alle decisioni e definizione dell’indirizzo familiare conferiscono alla donna poteri che ne impegnano fino in fondo la responsabilità.

Nel riconoscere alla donna un ruolo paritetico rispetto a quello dell’uomo non si rivaluta soltanto la figura femminile, ma si accollano anche nuove forme di responsabilità. La donna viene tutelata e le si predispone una situazione di parità con l’uomo, le si chiede anche di collaborare alla gestione dei rapporti familiari.

Dal matrimonio dunque discendono diritti e doveri reciproci che i coniugi non possono derogare:

    • fedeltà coniugale;
    • assistenza morale e materiale;
    • collaborazione nell’interesse della famiglia;
    • contribuzione;
    • coabitazione.

Mediante la previsione dei diritti e doveri coniugali, l’ordinamento delinea il modello di vita che caratterizza il matrimonio.

I doveri coniugali

La fedeltà

Il rapporto di fedeltà vincola i coniugi ad un rapporto affettivo esclusivo con l’altro. La giurisprudenza avvicina questo concetto a quello di lealtà e parla di impegno a non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi.

Anche per quanto riguarda la fedeltà coniugale, la riforma apporta delle modifiche rilevanti ai fini dell’eguaglianza giuridica e morale dei coniugi.

L’adulterio dell’uomo e della donna è sanzionato in eguale modo. Nei codici del 1942, invece, l’adulterio della moglie costituiva sempre reato, quello dell’uomo, era causa di separazione per colpa solo se il fatto poteva classificarsi come ingiuria grave.

La violazione di tale dovere, non ricorre solo in presenza di un vero e proprio adulterio, ma anche in presenza di un comportamento di apparente infedeltà, causa di menomazione della dignità dell’altro coniuge.

L’assistenza morale e materiale

Il nuovo testo dell’art.143, contempla l’obbligo reciproco di assistenza, enunciandone espressamente la sua natura morale e materiale.

Nel codice del 1942 si parlava di potere di protezione del marito verso la moglie, ma spesso questo principio si traduceva nella legittimizzazione di comportamenti del marito, lesivi della personalità della moglie.

Con la riforma, si evidenzia il sostegno che i coniugi si devono sotto il profilo economico e spirituale, nel rispetto della personalità altrui, favorendone lo sviluppo e la realizzazione delle inclinazioni.

Dal 1970 l’obbligo reciproco dei coniugi al mantenimento è regolato in conformità al principio di eguaglianza.

La collaborazione

L’obbligo di assistenza, è integrato dall’obbligo di collaborazione nell’interesse della famiglia. Si pone in rilievo, ancora una volta, la dimensione collettiva della famiglia. 

La collaborazione può riassumersi nell’impegno a realizzare la comunione di vita familiare attraverso il proprio fattivo comportamento.

Ciascun coniuge, mette a disposizione della famiglia le proprie risorse ed energie, per favorire il raggiungimento dell’accordo circa le decisioni familiari da adottare, senza irrigidimenti.

Collaborazione, non vuol dire annullamento degli spazi di autonomia individuale. La famiglia deve essere una comunità fondata sulla solidarietà dei suoi componenti, cui ciascuno conferisce il proprio contributo morale ed economico. Deve essere un luogo di arricchimento e potenziamento della personalità dell’individuo, non di annullamento della personalità

La contribuzione

Per contribuzione, si intende il sostegno economico. Ogni coniuge è tenuto a concorrere al soddisfacimento dei bisogni familiari, in proporzione alle proprie sostanze e capacità di lavoro professionale e casalingo.

Anche i figli conviventi, hanno il dovere di contribuire in famiglia, a seconda delle sostanze e del reddito di cui sono titolari.

Si è  voluta riconoscere una pari dignità del lavoro casalingo, rispetto all’extra-domestico; in più esso non è riservato esclusivamente alla donna. Tutti, in eguale misura, e, a seconda delle capacità, hanno il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia.

I coniugi devono distribuirsi, equamente, compiti e carichi familiari.

La coabitazione

I coniugi, sono tenuti a convivere stabilmente sotto lo stesso tetto. Di comune accordo, decidono il luogo ove fissare la residenza e stabilire la convivenza. Bisogna che i coniugi decidano, tenendo conto delle esigenze di entrambi e degli interessi della famiglia.

In caso di disaccordo in merito alla residenza, si può ricorrere al giudice.

Nel codice del 1942 era il marito, che, tenendo conto dei propri interessi, sceglieva il luogo ove fissare la residenza.

In alcuni casi particolari, un coniuge, può fissare domicilio o residenza diversi da quelli del resto della famiglia. Ciò, però, non deve compromettere l’adempimento degli obblighi di collaborazione o di residenza.

Altra novità introdotta dalla riforma, è l’annullamento di distinzioni tra marito e moglie, in caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare. Sono previste per entrambi le stesse sanzioni (art.146).

La violazione dei doveri matrimoniali (tutti), imputabile a colpa o dolo di un coniuge, legittima l’altro a chiedere l’addebito della separazione a carico del primo, se la convivenza sia divenuta intollerabile.

L’intervento del giudice

In caso di disaccordo tra coniugi, nel decidere le regole per il governo della famiglia, è previsto l’intervento del giudice.

In questo modo, non si è attribuito a nessuno dei coniugi, il potere decisionale, non si è dunque sacrificata l’eguaglianza di marito e moglie.

L’intervento del giudice deve essere meramente conciliativo, deve assumere il carattere di “strumento” di soluzione delle eventuali crisi di direzione della famiglia.

Tale intervento non si pone come decisione coattiva, ma come attività di collaborazione nella gestione dei rapporti familiari.

Infatti, il giudice, sentite le opinioni di entrambi i coniugi e dei figli maggiori di sedici anni, tenta di concordare una soluzione.

L’autonomia della famiglia non viene lesa, perché si dà rilievo alle esigenze ed opinioni di tutti i membri adulti del nucleo familiare.

Il giudice competente, per tali situazioni, è il tribunale, in composizione monocratica, del luogo di residenza dei due coniugi.

L’intervento del giudice è previsto anche in caso di disaccordo su problemi relativi alla vita dei figli.

Qualora sorga un contrasto circa questioni di particolare rilevanza, ciascuno dei coniugi, può ricorrere, senza formalità, al giudice, indicando i provvedimenti più idonei.

Il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore di anni quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare.  

La comunione dei beni 

Altra novità  introdotta dalla riforma del 1975, è la comunione legale dei beni. In virtù del disposto di cui all’art.159 c.c“il regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione, è costituito dalla comunione dei beni”, disciplinata dagli artt.177-179.

Tutti coloro che sono uniti in matrimonio dal 1975, se non hanno scelto diverso regime, sono soggetti alla comunione legale dei beni.

In tale modo, la riforma del diritto di famiglia, ha equiparato la posizione dei coniugi anche nel campo dei rapporti patrimoniali, assumendo, come regime ordinario, la comunione.

Nel codice del 1942, era invece sancito il dovere del marito di mantenere la moglie, qualunque fossero le condizioni economiche di lei, per quest’ultima, era previsto solo un dovere di contribuzione in caso di necessità. Oggi, invece, l’art.143c.c. obbliga entrambi i coniugi a contribuire per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

Prima della suddetta riforma, era previsto per tutti il regime di separazione dei beni, per cui ciascun coniuge, restava titolare esclusivo dei propri beni, senza vantare diritto sui beni dell’altro coniuge. La moglie, poi, doveva costituire la dote, con il fine di aiutare il marito nell’adempimento dei doveri di mantenimento della famiglia. Oggi è naturalmente abolita ogni convenzione che tenda alla costituzione di beni in dote.

Per mezzo della comunione legale, ai coniugi, sono attribuiti uguali poteri di cogestione ed uguali diritti sugli acquisti.

Caratteristica della comunione legale, è la contitolarità dei coniugi, per quote uguali, sugli acquisti successivi al matrimonio, con le eccezioni previste dall’art.179 e la cogestione del patrimonio con uguaglianza di poteri.

La comunione dei beni, trova fondamento nell’esigenza, fatta propria dall’Ordinamento, di dare attuazione in maniera più profonda alla causa del matrimonio, realizzando una comunione di vita tra gli sposi, anche per quanto riguarda il profilo patrimoniale. Si consente loro l’uguale partecipazione alle ricchezze prodotte durante il matrimonio. Dette ricchezze in effetti sono, solitamente, frutto di impegni e sacrifici comuni.

Il modello di comunione seguito dal legislatore, non è universale, ma misto, perché non comprende la totalità dei beni di cui i coniugi sono titolari. Il sistema di comunione legale, è introdotto dall’art.159, che eleva la comunione dei beni a regime legale e la separazione a regime eventuale, da scegliere solo previa apposita ed esplicita dichiarazione dei coniugi.

Con la comunione legale i beni acquistati dai coniugi, insieme ed individualmente, entrano a far parte di un unico patrimonio comune ad entrambi i coniugi. È bene precisare che, non tutti i beni cadono in comunione, ma solo gli acquisti compiuti dai coniugi dopo le nozze.

Più in particolare, negli artt.177-179, si distingue tra i beni comuni e quelli di cui ognuno può disporre liberamente. Sono beni esclusi dalla comunione (art179):

  • i beni acquistati prima del matrimonio;
  • i beni ricevuti per donazione o successione;
  • i beni di uso strettamente personale;
  • i beni che servono all’esercizio della professione di un coniuge;
  • i beni derivanti da risarcimento danni e pensione di invalidità.

Sono invece oggetto della comunione legale (art.177):

  • gli acquisti compiuti dai due coniugi, insieme o separatamente, durante il matrimonio (ad esclusione dei beni personali);
  • le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.


La gestione del patrimonio spetta ad entrambi i coniugi, in applicazione del principio di eguaglianza. Occorre, però, distinguere tra ordinaria straordinaria amministrazione.

Gli atti di ordinaria amministrazione, possono essere compiuti da ciascuno dei coniugi disgiuntamente. Si tratta di quegli atti che riguardano i bisogni ordinari della famiglia.

Gli atti di straordinaria amministrazione, che abbiano, ad esempio, per oggetto beni immobili o mobili registrati, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi.

Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione, l’altro coniuge, può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione al compimento dell’atto, nel caso in cui questo sia necessario nell’interesse della famiglia.

Anche in caso di lontananza o di altro impedimento di uno dei coniugi, l’altro, può farsi autorizzare dal giudice per il compimento di atti di straordinaria amministrazione. L’autorizzazione non è necessaria, però, se il coniuge, assente o impedito, ha rilasciato una procura con atto pubblico o una scrittura privata autentica.

La mancanza o l’impedimento di uno dei coniugi non deve costituire l’impossibilità di compiere atti di amministrazione necessari per la realizzazione dell’interesse della famiglia.

Quando il coniuge non possa amministrare o abbia male amministrato, può essere disposta l’esclusione dall’amministrazione, sia ordinaria sia straordinaria.

Alcuni fatti naturali o giuridici, possono rendere incompatibile il perdurare della comunione. Lo scioglimento della comunione dei beni, può essere legale (scioglimento automatico al verificarsi di determinate ipotesi), giudiziale (in seguito alla pronuncia del giudice) o convenzionale (accordo dei coniugi riguardo al mutamento del regime patrimoniale).

Sono cause di scioglimento legale della comunione:

  • la dichiarazione di assenza o morte presunta;
  • l’annullamento del matrimonio;
  • lo scioglimento del matrimonio (per morte o divorzio);
  • la cessazione degli effetti civili del matrimonio;
  • il fallimento di uno dei coniugi;
  • la separazione personale.

      Le cause di scioglimento giudiziale della comunione dei beni, possono essere:

  • la sentenza di inabilitazione;
  • la sentenza di interdizione di uno dei coniugi;
  • la inadeguata o insufficiente contribuzione di uno dei coniugi, al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

Lo scioglimento convenzionale della comunione dei beni si può invece, avere quando i coniugi, di comune accordo, decidono di:

  • mutare il regime patrimoniale;
  • sciogliere la comunione della gestione dell’azienda costituita dopo il matrimonio ed amministrata congiuntamente;
  • sciogliere la comunione degli utili dell’azienda, già di proprietà di uno dei coniugi prima del matrimonio, ma successivamente gestita da entrambi.

Lo scioglimento della comunione, determina la cessazione della comunione legale e comporta il ripristino del regime di separazione dei beni. La divisione dei beni della comunione legale, si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo ed il passivo. 
 

La filiazione 

La filiazione è il rapporto che si instaura fra due soggetti, l’uno dei quali dicesi genitore, l’altro figlio.

Criterio universalmente accolto per la sua costituzione, è quello della procreazione: genitore è colui che ha provveduto al concepimento ed alla procreazione di un’altra persona.

In casi particolari, cioè, filiazione adottiva, il rapporto, sorge per mezzo dell’intervento del giudice, dunque in mancanza dei suddetti  presupposti.

A seconda che la procreazione sia avvenuta in costanza di matrimonio e fra marito e moglie, o fuori dal matrimonio, o tra parenti, si hanno:

  • figli legittimi;
  • figli naturali;
  • figli incestuosi.

Se il concepimento avviene in costanza di matrimonio, si può parlare di filiazione legittima.

Come disposto dall’art.232 c.c.: “si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando sono trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio e non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio”.

Tuttavia, la nascita prima dei centottanta giorni, non comporta automaticamente l’illegittimità. Ugualmente, anche il figlio nato dopo i trecento giorni è considerato legittimo se ciascuno dei coniugi o i loro eredi provino che egli è stato concepito durante il matrimonio.

Anche il figlio stesso, può proporre azione per reclamare lo stato di figlio legittimo.

      L’azione di disconoscimento della paternità, è concessa nei seguenti casi:

  • quando il figlio è nato fuori dei limiti della presunzione di concepimento;
  • se i coniugi non hanno coabitato nel periodo compreso fra il trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita;
  • se durante il periodo predetto il marito risulti essere affetto da impotenza;
  • se durante il citato periodo la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celato al marito la gravidanza e la nascita del figlio.

 Sono legittimati ad agire:

  • il padre entro un anno dalla nascita del figlio;
  • la madre entro sei mesi dalla nascita del figlio;
  • il figlio entro un anno dal compimento della maggiore età o dal momento in cui entra a conoscenza dei fatti;
  • un curatore speciale nominato dal Giudice, su istanza del figlio naturale riconosciuto dalla madre;
  • il tutore dell’interdetto.


A seguito dell’azione di disconoscimento, il figlio acquista lo stato di figlio naturale riconosciuto dalla madre.

Anche dopo la riforma del 1975, l’ordinamento ha mantenuto la distinzione tra figli legittimi e naturali.  

Si dicono figli naturali coloro che sono stati generati:

  • da genitori non legalmente coniugati tra loro;
  • da un genitore libero civilmente ed uno coniugato;
  • da genitori ambedue uniti al momento del concepimento con altre persone;
  • da figli nati da genitori, liberi o coniugati, con altre persone, tra cui esistono vincoli di parentela o affinità.

Come si può  leggere nell’art.250 c.c.: “Il figlio naturale, può essere riconosciuto dalla madre o dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente, quanto separatamente.

Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non produce effetto senza il suo assenso.

Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni non può  avvenire senza il consenso dell’altro coniuge che abbia già effettuato il riconoscimento.

Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età”.

Non sono riconoscibili i figli naturali incestuosi, in altre parole generati da fratello e sorella. In questo caso il riconoscimento è ammesso solo se, il genitore era in buona fede e sempre che sussista l’interesse del figlio al riconoscimento.

Il riconoscimento è fatto nell’atto di nascita o con apposita dichiarazione, posteriore alla nascita. Esso è un atto impugnabile per difetto di veridicità, violenza o interdizione giudiziale.

Con la riforma del 1975, il legislatore ha cercato di dare piena attuazione alle disposizioni della Costituzione, equiparando la posizione dei figli legittimi e di quelli naturali, anche in tema di diritti patrimoniali.

La patria potestà  spetta al genitore che ha riconosciuto il figlio, o ad entrambi, se il riconoscimento è stato fatto da ambedue.

Il figlio naturale acquista il cognome del genitore che lo ha riconosciuto per primo, se è stato riconosciuto insieme da entrambi, quello del padre.

L’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima di uno dei genitori può essere autorizzato se non contrario all’interesse del minore stesso. Devono, però, dare l’assenso i figli legittimi, conviventi, che abbiano compiuto i sedici anni, il coniuge e l’altro genitore naturale.

Il figlio naturale, può acquistare lo status di figlio legittimo per effetto della legittimazione. Questa fa nascere un rapporto di parentela tra il legittimato ed i familiari del genitore e può avvenire in due modi: per susseguente matrimonio tra i genitori naturali o per provvedimento del Giudice.  

Gli effetti della filiazione 

Tra gli obblighi che la legge pone a carico dei coniugi, vi sono anche adempimenti da compiere a favore dei figli.

Il nuovo testo dell’art.147 c.c., riprende solo in parte il testo del Codice del 1942. Infatti, ripete che, il matrimonio, impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire e educare i figli.

La novità  è rappresentata dalla rivalutazione della figura del minore. I genitori, devono infatti, tener conto delle aspirazioni ed inclinazioni dei figli.

L’interesse del minore prevale su quello dei coniugi che, non ne possono limitare la libertà ideologica e religiosa.

I doveri di istruzione, educazione e mantenimento, sussistono nei confronti sia dei figli legittimi che naturali. I doveri di istruzione e educazione, si estinguono con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio. Il dovere di mantenimento, dura fin quando questi non sia in grado di inserirsi effettivamente nel mondo del lavoro e provvedere alle proprie esigenze di vita. Nella filiazione naturale, se i genitori non convivono, quello non affidatario, deve versare all’altro un assegno proporzionato alle sue possibilità economiche.

Se i genitori non hanno mezzi sufficienti, l’obbligo di mantenimento grava sugli ascendenti prossimi.

Essendo i figli soggetti attivi all’interno della famiglia, su loro gravano dei doveri, delle assunzioni di responsabilità.

I figli sono tenuti a rispettare i propri genitori, in base al principio solidaristico, a contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. La contribuzione deve essere proporzionata alle sostanze ed ai redditi del figlio.

L’obbligo di contribuzione del figlio non cessa con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae per tutto il tempo in cui continua la convivenza con i genitori.

Per quel che riguarda la potestà, cioè l’insieme di poteri concessi al titolare sulla persona e sul patrimonio del figlio minore o nascituro, questa, nell’interesse del medesimo, spetta normalmente ad entrambi i genitori. In mancanza dei genitori, la cura dei minori compete al tutore.

Nell’esercitare i propri doveri verso i figli, ai genitori, è riconosciuta una potestà da esercitare di comune accordo; dunque, non più patria potestà, ma anche in questo caso, uguaglianza tra coniugi.

La riforma, ancora una volta, contribuisce all’abbandono di una visione gerarchica della famiglia e dei rapporti che ne discendono. Al figlio è attribuito un ruolo attivo nei processi di formazione della personalità e nella vita stessa della famiglia.

Nei confronti del figlio naturale, la potestà, spetta ad ambedue i genitori solo se essi convivono. Altrimenti, compete al genitore che convive con il figlio o che lo ha riconosciuto per primo. Il giudice, però, può decidere diversamente nell’interesse del minore. 
 

Riferimenti bibliografici 

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