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Il garbuglio del "legittimo impedimento"

Scritto da Paolo Pistone

Il testo del disegno di legge sul cd. “legittimo impedimento”, approvato nei giorni scorsi dalla Camera dei deputati ed ora dal Senato, si compone di due articoli, che così recitano: 

Art. 1: 1. Per il Presidente del Consiglio dei ministri costituisce legittimo impedimento, ai sensi dell'articolo 420-ter del codice di procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali, quale imputato o parte offesa, il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque connessa alle funzioni di governo. 2. Per i Ministri l'esercizio delle attività previste dalle leggi e dai regolamenti che ne disciplinano le attribuzioni, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo, costituisce legittimo impedimento, ai sensi dell'articolo 420-ter del codice di procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali quali imputati o parti offese. 3. Il giudice, su richiesta di parte, quando  ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti, rinvia il processo ad altra udienza. 4. Ove la Presidenza del Consiglio dei ministri attesti che l'impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo ad udienza successiva al periodo indicato che non può essere superiore a sei mesi. 5. Il corso della prescrizione rimane sospeso per l'intera durata del rinvio, secondo quanto previsto dall'articolo 159, primo comma, numero 3), del codice penale, e si applica il terzo comma del medesimo articolo 159 del codice penale. 6. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge. 

Art. 2: 1. Le disposizioni di cui all'articolo 1 si applicano fino alla data di entrata in vigore della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri, nonché delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali e, comunque, non oltre diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, salvi i casi previsti dall'articolo 96 della costituzione, al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla costituzione e dalla legge”. 

Ora, in primo luogo, a leggere l’art. 420 ter del c.p.p. e a non voler considerare la configurabilità delle ipotesi di reati costituzionali (art. 96 cost., fra i più dimenticati) e di contumacia (di cui al successivo art. 420 quater del codice di rito; istituto che peraltro la dice lunga - anche a voler considerare gli insegnamenti del diritto romano - sulla non trasparente giuridicità del provvedimento in questione) con celebrazione del relativo processo, il che per l’appunto con la legge si vuole scongiurare, è ragionevole ritenere, in quanto a ratio legis, che il cosiddetto “altro legittimo impedimento”, che sia tale da non consentire all’imputato di comparire in udienza (art. 420 ter, n. 1), debba essere tendenzialmente della medesima natura o tipologia della “forza maggiore” o del “caso fortuito” di cui parla in modo sequenziale la medesima - e non altra, specifica e separata - disposizione, come qualcosa di imprevisto o imprevedibile, e che debba e possa riguardare “chiunque” sia conducibile in giudizio.

Quando si legge ad esempio nella dottrina processualpenalistica che l’impedimento legittimo deve essere un che di inatteso, o che esso non è la malattia, o che deve essere assoluto ed attuale, o si sente dire che l’imputato potrebbe sempre - mettiamo - rompersi una gamba, allora è chiaro che non si parla di qualcosa che ha le caratteristiche della situazione consolidata e/o istituzionale, per dire di condizione riconducibile a un munus publicum; ma di qualcosa che appunto in quanto impeditivo investe - in modo inatteso e cioè immediato, improvviso - direttamente la sfera fisica della persona, in ciò generando una impossibilità materiale effettiva.

In breve, con il provvedimento in questione, si viene ad operare una estensione impropria della norma e del suo oggetto: a ciò che nella previsione normativa potrebbe e dovrebbe accadere in modo eccezionale, imprevedibile e quasi-istantaneo, si sovrappone o giustappone qualcosa che comunque è o è già tale, che dunque non semplicemente accade, tanto meno con quasi-istantaneità. A ciò che viene in considerazione perché straordinario si sovrappone un che di ordinario, quasi ciò che dovrebbe essere eccezione divenisse regola. A ciò che investe la sfera fisica si sovrappone qualcosa che investe altra sfera.

Se tutto questo è sostenibile, allora non si può ritenere che l’avere ritagliato, definendolo per connessione con le funzioni assegnate dalla costituzione, una ipotesi di legittimo impedimento a favore del Presidente del Consiglio o dei ministri, rispetti la ratio dell’art. 420 ter del codice di rito: se a quell’articolo si fa richiamo espresso, allora si confondono e falsificano le ipotesi, facendo leva sulla mera locuzione e introducendo così un privilegio, che sarebbe ammissibile, presumibilmente, solo se previsto da norma sovraordinata a quella ordinaria e comunque in altro contesto. 

Il fatto poi che nel testo votato da Camera e Senato non si legga qualcosa come: “l’articolo 420 ter del c.p.p. è così modificato” o simili non elude ed anzi lo richiama il legame tra fattispecie eccezionali o anomale e norme o leggi eccezionali o anomale. Delle quali comunque anche alla luce di un uso “singolare” ma abituale dello strumento legislativo è dato discutere, sul piano della costituzionalità. 

Forse anche che per assurdo e a contrario, ma seguendo la logica del provvedimento in esame, il nostro codice di procedura penale, sostituendosi ai giudici, avrebbe dovuto definire - e significativamente la cosa non è stata fatta - per tutti gli imputati, elencandone le casistiche, il legittimo impedimento? Questo sembra dover essere ragionevolmente piuttosto qualcosa che materialmente e sorprendentemente in questa o quella circostanza in generale “impedisce di”, e cioè per lo più un dato fisico (ma potremmo dire parimenti psico-fisico), oltre che assoluto e di portata generale? Se è per un principio costituzionale di eguaglianza che ciò avrebbe dovuto essere fatto, allora si ha nel caso del nostro disegno di legge divenuto legge una violazione del detto principio e una ulteriore declinazione di certa funzione pubblica come “privilegio”, consono non allo spirito delle carte fondamentali del secondo dopoguerra e piuttosto ad uno Stato monarchico o augusteo (ma non proprio augusteo), in cui il re, o l’imperator, possa disporre liberamente, per essere stato da essi “liberamente” eletto, e meglio acclamato, delle sostanze nonché della vita dei sudditi. 

Questioni di ratio legis - e che dire del divieto di analogia? - quindi e contestualmente di legittimità costituzionale; ma meglio direi un garbuglio o pasticcio  (anti)costituzionale o che ignora (inescusabilmente) la costituzione. Ma quanto qui sostenuto, e anche dichiarato da un illustre avvocato penalista, che cioè le norme di cui trattasi sono “palesemente” incostituzionali poiché “il presupposto dell’impedimento è una carica”, credo sia importante ma non basti a decifrare appieno la triste situazione in cui versa il nostro Stato repubblicano. 

È di tutta evidenza ma lo si ignora completamente, che lo spirito della legge nel nostro caso sia compatibile con un testo costituzionale non munito ma privo dell’articolo 54, soprattutto con riferimento al secondo comma, laddove si legge che: “I cittadini cui sono state affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Lo spirito cioè se lo viola o è contrario ad esso è perché ignora il dettato costituzionale: invece di produrre leggi che sviluppino la fase applicativa di quell’articolo, se ne fanno quasi vi fosse una lacuna costituzionale cui sopperire, con qualsiasi strumento. Invece di rafforzare il principio per cui chi riveste una carica pubblica è tenuto più degli altri cittadini al rispetto delle leggi e della costituzione, si promuove il principio contrario, in un grande bagno d’ignoranza e di perniciosa confusione morale, come da troppo tempo accade.

Al fondo del nostro disegno di legge sembra agitarsi fra l’altro ancora l’equivocità che ha caratterizzato l’applicazione dell’art. 68 della Costituzione, in quanto al nesso tra le affermazioni rese (dunque le offese infamanti ma più in generale la condotta) e la funzione svolta dal parlamentare. L’impostazione del d.d.l. sembra cioè risentire del certo quale spirito corporativo di autodifesa che ha quasi sempre inciso sull’applicazione dell’immunità parlamentare (stravolgendone il senso rispetto a quanto ad essa attribuito dai costituenti), con la differenza, peggiorativa e non migliorativa a mio parere, che le disposizioni qui in questione e introducono una ulteriore differenza, fra ministri e parlamentari, anche qui interessando chiaramente il suddetto principio egualitario oltre che l’equilibrio fra i poteri dello Stato; e sostanzialmente non specificano, proprio sotto il profilo del ius singulare, trattandosi di cariche “tra di loro disomogenee” (Corte cost., sent. 262 del 2009), gli elementi costitutivi, che possano giustificare per ciascuna di esse la copertura costituzionale.

Come ignorare inoltre che rispetto all’incostituzionale e antidemocratico “lodo Alfano” ma ripetendone lo spirito, essendo stati cambiati i beneficiari della norma con l’esclusione di tre alte cariche dello Stato - il Presidente della Repubblica e i presidenti di Camera e Senato -, sia stata mantenuta quella di Presidente del Consiglio e capo del Governo? Dando luogo, nella finzione costituzionalista delle alte cariche che siano poste nella condizione di svolgere indisturbate (dalla giustizia penale, si badi bene, non dai monelli, dai bricconi o dagli assassini) il loro lavoro, ad una grave omissione e ad uno scadimento di stile? Bisognava insomma fare presto, senza ripresentare, forse per non “dare nell’occhio” - ma sottraendo così l’intero esecutivo alla giustizia -, sempre i soliti titolari di privilegio. E dunque: ciò che non è riuscito ai frettolosi “legislatori” in occasione del “caso Englaro”, a parità di metodo e di spirito, sembrerebbe poter riuscire ora, in stretto tema giudiziario. 

Il garbuglio legislativo e l’ignoranza della costituzione inoltre sembrano bene evidenti e laddove sia dato soffermarsi su quel “rinvia [ovvero: deve e può solo rinviare] il processo ad altra udienza” e laddove la certificazione che vi sia un impedimento “continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge” è affidata alla stessa Presidenza del Consiglio, presumibilmente (?) a un qualche suo funzionario, togliendo rozzamente in entrambi i casi la discrezionalità al giudice e violando il principio della soggezione del giudice alla sola legge (art. 101 comma 2 cost.).

Mette conto infine - a non voler considerare profili lesivi del trattato dell’Unione Europea (: dignità umana, democrazia, libertà, eguaglianza) -, a proposito della violazione di certi valori, riflettere brevemente con riferimento a quel “Le disposizioni di cui all'articolo 1 si applicano fino alla data di entrata in vigore della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri, nonché delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali”, su un caso singolare di successione delle leggi nel tempo: è ammissibile che l’una, che precede, per giunta gerarchicamente sottordinata, fondi la propria validità sull’altra, giuridicamente inesistente e gerarchicamente sovraordinata; l’una facendo rimando all’approvazione tutt’altro che certa (dunque incertezza del diritto) di un “lodo Alfano”, cosiddetto “costituzionale”?

È possibile giuridicamente e razionalmente ammettere disposizioni di legge “ad efficacia normativa anticipata”? Si è parlato al proposito di “scudo temporale”, ma qual è la temporalità giuridica in assenza di coperture o certificazioni di legittimità in generale, laddove la lex posterior è solo promessa o auspicata o vaticinata? Con il che invece si ha una violazione dell’articolo 138 della costituzione per aversi una “legge-ponte” cosiddetta su un’isola che non c’è.

In relazione a tutto ciò si ha ancora una volta complessivamente l’impressione di un labirinto di psicologia giuridica nel quale ci si vada a cacciare, o appunto di un garbuglio, inestricabile e comunque di una lettura psichica ancor prima che giuridica del diritto positivo, laddove l’ordinamento di per sé stesso e l’esegesi sono costrette sostanzialmente a rincorrere, rispetto ad una funzione legislativa mal condotta.

Codesto “garbuglio” - mi domando - merita forse una qualche attenzione per così dire filosofica? Se la risposta è affermativa, allora vale la pena osservare come il problema, anche, sia in una sottile scaltra differenza e anzi in-differenza, tra il fatto e il diritto, e meglio: norma di fatto e norma di diritto; laddove al primo vengono attribuite doti apparentemente ammissibili di giuridicità che ad esso per definitionem non appartengono. 

È, detto altrimenti, come se il fatto, se precede il diritto, è perché ha in sé una preesistente fonte di legittimazione, forse una qualche metagiuridicità? Ciò che emerge dal testo di legge in questione è che quello che è divenuto uno stratagemma nella prassi e insomma una consuetudine (praeter legem, quanto meno) per rinviare le udienze e sfuggire, con l’assenza e giocando sui termini di prescrizione, alla celebrazione del processo e al corso della giustizia, è stato tradotto in norma positiva. Ma la legge, per l’appunto, non deve sic et simpliciter ripetere il fatto soprattutto se lesivo e deve invece oggettivamente disciplinarlo, tenendo, rispetto ad esso, quella che definirei la distanza educativa del Giudizio o del dover-essere. Ne va insomma, per il nostro tema, non solo della costituzione formale e di ogni responsabile democratica dottrina costituzionalistica ma anche della stessa teoria generale del diritto, il che unitamente al necessario spirito analitico dovrebbe dare la misura delle cose.