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La tutela penale nel Codice della privacy: alcuni spunti di riflessione

Scritto da Alessia Oliviero

Nel tempo della società digitale la protezione dei dati personali ha acquisito ogni giorno di più un ruolo centrale, fino ad abbracciare la persona nella sua interezza, sia nella dimensione individuale che in quella relazionale. Da qui la necessità di dotare il Codice della Privacy di un efficace apparato sanzionatorio. In particolare, alcune considerazioni sulle sanzioni penali ivi previste e sul rapporto intercorrente tra le stesse ed il Codice Penale.

Il quadro giuridico italiano in tema di privacy si è arricchito nel corso del tempo mediante il recepimento delle direttive comunitarie in materia e tramite l'adozione di nuove o rinnovate regole di rango legislativo che sono riuscite, attraverso la predisposizione di rimedi di natura civilistica, amministrativa e penale, ad offrire risposte sanzionatorie adeguate rispetto alle sfide poste dall'inarrestabile evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione e diffusione.

La tutela di tipo penalistico, disciplinata dagli artt. 167 ss. del d.lgs. 196/2003, è quella che ha maggiormente attirato l'attenzione della dottrina, la quale, in virtù di evidenti difficoltà in sede applicativa, si è interrogata sull'idoneità di tali sanzioni ad assolvere alla funzione general-preventiva secondo quelli che sono i canoni propri del diritto penale. Il prevalente scetticismo manifestato dai commentatori è derivato soprattutto dalla tecnica normativa prescelta dal legislatore.

Tutte le norme in questione, infatti, prendono forma attraverso continui rinvii ad altre disposizioni contenute in diversi articoli che, a loro volta, rimandano a varie fonti, di natura legislativa o regolamentare, secondo lo schema delle "norme penali in bianco". Esempio classico è rappresentato dall'art. 167 del Codice della privacy (in tema di illecito trattamento di dati personali) che, ai fini dell'individuazione della condotta punibile, rimanda a numerosi e diversi articoli del testo unico, tra i quali l'art. 19 che, a sua volta, rinvia a norme di legge o di regolamento. Pertanto, ai sensi dell'art. 167, qualora occorra valutare se un ente pubblico abbia proceduto al trattamento dei dati personali in violazione del disposto dell'art. 19, occorrerà considerare l'intero panorama normativo italiano per accertare se vi è anche un solo regolamento che ammette quella comunicazione da un ente pubblico ad un altro.

L'utilizzo di un simile procedimento conduce ad una sorta di "caccia al tesoro normativa", a causa della quale viene messa in discussione la possibilità di determinare i confini esatti della norma. La conseguenza è che al destinatario del precetto risulterà difficile distinguere ciò che è lecito da ciò che lecito non è, e anche nelle situazioni in cui appaia immediata l'individuazione del comportamento deplorevole, sarà tutt'altro che agevole determinare la conseguenza punitiva riconducibile allo stesso.

Tenuto conto di questi elementi, risulta evidente quali incertezze si pongano in relazione al principio di tassatività e di determinatezza. Se da un lato l'utilizzo di questa tecnica di rinvio assicura il costante aggiornamento del contenuto normativo del precetto, adeguandolo alle variabili e progressive evoluzioni del settore; dall'altro permane in capo al soggetto attivo un tale margine di incertezza sulla condotta da tenere e sugli obblighi da osservare difficilmente giustificabile in termini di colpevolezza normativa.

Tutto questo ingenera una grande confusione, cui consegue il venir meno della capacità afflittiva della pena: è evidente che la stessa non potrà pienamente assolvere alla funzione intimidatrice che le è generalmente riconosciuta, poiché l'incomprensione del dettato normativo impedisce di neutralizzare gli impulsi a delinquere dei consociati. In virtù delle suddette considerazioni, la soluzione più efficace consisterebbe certamente nel completamento del processo di semplificazione che ha già interessato il Codice negli ultimi anni: rendere la dizione legislativa meno articolata comporterebbe una valorizzazione dell'efficacia deterrente delle sanzioni, con conseguente maggiore fiducia dei consociati nelle potenzialità del Testo unico.

Tuttavia i problemi si pongono non soltanto con riguardo alla tecnica normativa utilizzata, ma anche in relazione alla possibilità di conciliare la portata afflittiva delle sanzioni contenute nel D.lgs. 196/2003 con alcune delle pene previste nel Codice Penale, allorché si sia in presenza di una pluralità di condotte criminose.

Si pensi, a titolo esemplificativo, all'ipotesi di diffamazione via web: spesso il soggetto che diffama decide di non limitarsi all'esternazione di commenti e valutazioni offensive, ma preferisce sfruttare la facilità di allegazione offerta dalla rete per aumentare la carica denigratoria attraverso la contestuale pubblicazione di fotografie, dati personali e/o sensibili della vittima. In tal caso l'interprete non potrà di certo limitarsi all'applicazione dell'art. 167 del Codice della privacy, che punisce l'illecito trattamento di dati personali, ma dovrà affiancare allo stesso l'art. 595 c.p., in tema di diffamazione.

La situazione si complica allorquando siano gli stessi internauti a rendere di dominio pubblico le proprie informazioni o le immagini che li ritraggono, ad esempio attraverso gli ormai noti canali di diffusione offerti dai social network. E' questo uno dei nodi centrali della questione: se fino ad un paio di decenni fa il timore maggiore era quello di vedere ingiustamente invasa la propria sfera privata, oggi la prospettiva si è capovolta e l'esposizione di sé e dei propri pensieri impera sui blog, sui forum, sul web in generale, rendendo la tutela degli utenti sempre più complessa.

Inserire compulsivamente foto e commenti in rete, per un incontenibile bisogno di condivisione, sembra spostare sempre di più il limite della riservatezza, di quanto è opportuno rivelare o dichiarare di sé e degli altri. E anche la percezione del confine di ciò che è lecito ed accettabile finisce per sbiadire, con la conseguenza che in troppi casi l'assenza di fisicità, che indebolisce le remore morali, amplifica la commissione di reati nel web. Di conseguenza la privacy non si identifica più nel diritto a mantenere il segreto sulle proprie informazioni, ma si estende alla pretesa di un'esatta percezione sociale della propria personalità, in modo che l'immagine offerta di sé rispecchi fedelmente, e quindi correttamente, la propria identità. E' qui che si pone il problema di un'adeguata risposta sanzionatoria, soprattutto in ambito penale.

Senza ombra di dubbio questo tema rappresenta una nuova delicata frontiera che interroga la coscienza di tutti: il diritto dei cittadini ad utilizzare il web come veicolo di comunicazione, ineludibile corollario della libertà di espressione, non può di certo degradare il diritto alla protezione dei dati personali; per questo motivo si ritiene ci sia bisogno di interventi legislativi più specifici, sia a livello nazionale che europeo. Solo l'introduzione di norme idonee a ricomprendere nel proprio campo applicativo le nuove e sempre più evolute dinamiche criminali del web potrà rappresentare la giusta risposta legislativa a quanti lamentino in sede giudiziaria la violazione della propria privacy.

Alla domanda se il diritto alla protezione dei dati personali e la c.d. tutela della privacy, intesa come particolare aspetto della dignità umana e del più ampio catalogo dei diritti legati alla personalità, siano protetti adeguatamente dalla normativa vigente, si può nel complesso dare una risposta affermativa. Tuttavia si può fare di più: occorre che le Autorità competenti ed i legislatori nazionali ed internazionali non perdano mai di vista il principale rischio relativo alla possibilità che i progressi tecnologici si rivelino ben più rapidi rispetto all'adeguamento delle relative regolamentazioni. Se così accadesse, ci troveremmo dinanzi ad una miriade di condotte illecite prive di un'adeguata risposta sanzionatoria. La soluzione risiede quindi in un costante aggiornamento normativo, che consenta di adeguare la tutela penale offerta dal Codice per la protezione dei dati personali alla rapida evoluzione della società digitale, con la necessaria duttilità richiesta dalla materia.