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La rilevanza dei rapporti familiari in campo commerciale

Scritto da Giovanni Profazio

 Sommario

A) Premessa
B) Rapporti familiari e diritto societario b.1) Impresa familiare e azienda coniugale b.2) Impresa collettiva e società
C) Rapporti familiari e diritto fallimentare c.1) Presunzione muciana e comunione legale c.2) Presunzione muciana e regime di separazione
D) Rapporti familiari e diritto tributariod.1) Regimi patrimoniali e imposte dirette d.2) Regimi patrimoniali e imposte indirette


A) Premessa   
Oggetto della presente disamina è il riflesso che i rapporti di tipo familiare (coniugio, parentela e affinità) possono avere in un settore patrimaoniale per stessa connaturazione. Infatti si analizzeranno gli effetti dei rapporti familiare in campo commerciale. Si deve, però, procedere con molta cautela, evidenziando preliminarmente che la ratio di tutte le fattispecie "commerciali" è improntata a una normativa specifica che tutela innanzitutto la patrimonialità, e soltanto successivamente "l'interesse superiore della famiglia". Occorre sottolineare quindi che i rapporti familiari presuppongono il concetto giuridico di "centro di interessi" la rilevanza del quale è stata oggetto di aspre dispute dottrinarie.
A noi sembra comunque di dover protendere per un riconoscimento di giuridicità per ragioni di ordine dogmatico e pratico appresso enunciate. Nella presente disamina, quindi, si analizzerà la rilevanza di detto interesse un campo commerciale, e cioè partitamente nei campi, societario fallimentare e tributario, tenendo sempre da conto che ai rapporti familiari non è estraneo un interesse di natura patrimoniale.


B) Rapporti familiari e diritto societario  
Il concetto giuridico di "interesse familiare" è evidente in diritto societario solo che si consideri la "doppia" posizione del socio-coniuge e del socio-parente. Si considera in conflitto di interessi, per esempio, il socio di una società di capitali, il quale voti una delibera che abbia come oggetto il compenso del coniuge amministratore unico della stesa società. Oppure si è ravvisato una violazione dell'obbligo di "fedeltà" (art. 2105 c.c.) di un amministratore di società, il coniuge del quale aveva acquisito quote di una società concorrente, legittimandone così il licenziamento. L'esistenza di questo centro di interessi patrimoniali, costituito dai rapporti familiari, è inoltre richiamata per istituire un collegamento tra società ai sensi dell'art. 2359 c.c., con tutte le conseguenze che da ciò può derivare. Un tale collegamento, per esempio, è stato ravvisato nella materia dei pubblici appalti, dove la "partecipazione alla gara solo di ditte la cui titolarità apparteneva agli stessi soggetti o comunque a soggetti legati da rapporti di parentela" non assicurerebbe il rispetto del principio fondamentale di concorrenza, posto a base della trasparenza ed efficienza in questo campo.
Pertanto, il dato comune a i rapporti familiari in tema societario sembra essere che per la legge, le parti -data la loro particolare posizione- sono nelle condizioni di tenere comportamenti particolarmente lesivi del patrimonio sociale o dell'azienda del datore di lavoro. E' per questo motivo che vengono previste conseguenze che vanno dall'annullabilità di certi atti, alle sanzioni disciplinari nei confronti del dipendente, fino al risarcimento dei danni. Quanto a quest'ultima sanzione occorre sottolineare che un soggetto che è parte dei contratti sopracitati (società, lavoro ecc) ed è soggetto di rapporti "familiari", non è ipso facto in conflitto di interessi; ovverosia, la semplice circostanza che lo stesso soggetto abbia un proprio interesse patrimoniale non genera conflittualità di interessi contrapposti. Occorre, infatti, anche la dimostrazione del danno ingiusto -almeno potenziale- alla società. Oppure, nel rapporto di lavoro, che il dipendente tratti affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore.


b.1) Impresa familiare e azienda coniugale  
Altra casistica si riscontra nel confronto tra normativa dei rapporti familiari e quella relativa al contratto di società (art. 2247 c.c.) e alla qualifica di imprenditore commerciale. Infatti in tema di azienda coniugale (nelle diverse accezioni di cui agli artt. 177, lett. d); 177, ultimo comma; 178 c.c.) e impresa familiare (art. 230-bis c.c.), che vengono intese come forme di organizzazione della famiglia in senso lavorativo, si è proposto di considerare i componenti l'impresa familiare come contitolari e cogestori e la stessa impresa familiare come un organismo di tipo societario. Dello stesso tipo sono le questioni poste per l'azienda coniugale. Per una buona parte della dottrina il riferimento normativo alla gestione di entrambi i coniugi permetterebbe di considerare l'azienda coniugale come un'impresa collettiva (non società) oppure una società, sempre che sia possibile -così si dice- isolare l'affectio societatis sullo sfondo dell'affectio coniugalis. Infatti, a ben vedere, i rapporti sociali si inquadrano nella normativa dei rapporti familiari ed hanno una funzione riconducibile al "mantenimento". Impresa familiare e azienda coniugale, inoltre, svolgono una ulteriore funzione, al di fuori della materia strettamente familiare. Infatti, nelle ipotesi nelle quali vi è la collaborazione di un familiare nell'impresa di un altro, si vuole escludere che questa collaborazione sia a titolo gratuito, assicurando, nel caso nulla sia disposto, un minimo retributivo e normativo. In ogni modo si tratta di regole che valgono tra familiari.


b.2) Impresa collettiva e società  
Quanto alle società viene in rilevanza l'applicazione di una normativa di altro tipo ma comunque ordinata sugli stessi principi. Invero, con essa i soggetti sono parti di un vero e proprio contratto, in virtù del quale conferiscono beni e servizi per lo svolgimento dell'attività di impresa di cui all'art. 2082 c.c. Un contratto che deve avere i requisiti di cui all'art. 1324 c.c., nonché seguire le regole di cui agli art. 2247 e ss. c.c.. Qiondi, la qualità di socio non si riduce ad un rapporto obbligatorio interno, istituito per legge, ma attraverso lo strumento del contratto, assume una rilevanza esterna. Nella società, infatti, "all'azione esterna dell'impresa corrisponde l'efficacia esterna della sua organizzazione" conseguentemente, la qualità di socio conferisce una responsabilità (sia essa limitata o illimitata) nei confronti dei terzi, diritti di informazione oltre che economici; e nelle società di persone -a certe condizioni- anche un potere di rappresentanza. Ma la differenza con la disciplina di cui al precedente paragrafo, è evidente soprattutto in tema di responsabilità. Infatti, proprio questo aspetto distingue il socio dal coniuge dell'imprenditore nell'azienda coniugale e dal collaboratore familiare nell'ipotesi di cui all'art. 230-bis c.c.. Questi ultimi, infatti, non hanno alcun tipo di responsabilità nei confronti dei terzi. Chi risponde è sempre e comunque l'imprenditore. Quanto poi al rapporto di coniugio, tra i coniugi -per esempio- potrebbe anche instaurarsi una società di persone o di capitali, il che avrà certe conseguenze nei rapporti della società e dei soci con i terzi. Ora, se i soci sono in regime di comunione legale, la relativa normativa potrà ancora applicarsi, in modo da perseguire le sue finalità proprie. Questo accadrà solo nel caso di scioglimento della comunione. In questo caso, se è configurabile una azienda coniugale, ai sensi, per esempio, dell'art. 177, lett. d) c.c., il valore netto dell'azienda concorrerà con gli altri elementi passivi e attivi a determinare la quota spettante ai due coniugi. In definitiva, quindi, non è sempre facile stabilire con chiarezza quando e se ricorra un contratto sociale. E ciò sembra non il risultato di una sovrapposizione tra normativa contrattuale e familiare ma forse semplicemente una preminenza di quest'ultima.


C) Rapporti familiari e diritto fallimentare  
Lo stesso problema di concorso di normative si ravvisa in campo fallimentare.
Tra i problemi posti dal confronto tra diritto fallimentare e rapporti familiari, il più dibattuto è quella della sopravvivenza della presunzione muciana, dopo l'entrata in vigore della L. 151 del 1975. E' della fine degli anni ottanta la scoperta, ad opera soprattutto della giurisprudenza, che la cosiddetta presunzione muciana, prescritta dall'art. 70 l. fall. sarebbe stata abrogata proprio dalla L. 151 del 1975 .
Una tale scoperta è avvenuta in due tempi. In un primo momento si è ritenuta la presunzione muciana "incompatibile" con il regime della comunione legale. In questi ultimi anni, poi, l'art. 70 è stato considerato abrogato con riferimento anche ai coniugi in regime di separazione dei beni. Sulla ricostruzione del problema pesa molto la teoria che si adotta riguardo ai cosiddetti regimi patrimoniali tra coniugi.
Diversamente dalla concezione più diffusa, per la presente disamina i rapporti patrimoniali sono funzionali all'obbligo di mantenimento e partendo da queste premesse, il problema della presunzione muciana si presenta in altri termini.
La disciplina della comunione legale non si trova in una situazione di incompatibilità con l'art. 70. Ciò sotto il profilo dei soggetti, dell'oggetto, e soprattutto funzionale. Dal punto di vista soggettivo la comunione legale non distingue se uno dei coniugi sia imprenditore o meno. Tra la normativa della comunione legale e quella dell'art. 70 l. fall. Potrebbe esserci un rapporto tra genere e specie, che per un parte della giurisprudenza escludeva l'abrogazione implicita della presunzione muciana. Oltre a questo rilievo si può far notare che le due normative sono diverse sotto il profilo oggettivo. Infatti, l'art. 70 l. fall. prende in considerazione singoli beni, mentre la comunione fa riferimento ad una quota. Detta quota è determinata con riferimento a alcuni beni soltanto, con l'esclusione dei beni personali e considerando i redditi de residuo, sottratti alcuni debiti, come quelli indicati nell'art. 189 c.c. Ma la differenza più importante tra le due normative è di tipo funzionale. Invero, il principio sul quale ruota la normativa della comunione è l'interesse al mantenimento, il che spiega la previsione di un diritto di credito (alla quota della comunione) riconosciuto soprattutto a vantaggio del coniuge che non è titolare di beni. Infatti, con la normativa della comunione i coniugi diventano garanti l'uno dell'altro nei confronti dei terzi. In effetti i beni di cui ciascun coniuge è separatamente titolare, possono essere aggrediti dai creditori dell'altro coniuge, nell'ipotesi di incapienza del patrimonio del debitore. Ma a ben vedere questa misura è soprattutto funzionale alla tutela dell'interesse al mantenimento. Difatti, la legge, individuando un bene come appartenente alla comunione, anche se di proprietà del coniuge debitore, attraverso il limite stabilito nell'art. 189 c.c. impedisce che l'altro sia completamente privato del suo credito al mantenimento. Questa normativa non sembra agire sullo stesso piano di quella della presunzione muciana, che ha la ben diversa funzione di tutelare le ragioni dei creditori. Le diversità tra le due normative (sotto il profilo oggettivo, soggettivo e funzionale) non può essere considerata incompatibilità. Esse convivono perfettamente ognuna nel suo ambito specifico. Quando si verifica il fallimento di uno dei coniugi in comunione legale, l'operatività della presunzione di cui all'art. 70 L. Fall. non impedisce certo che l'altro coniuge possa far valere il credito della quota della comunione legale. La comunione in virtù del fallimento si scioglie e ciò comporta la individuazione di detta quota. Ciò detto, sembrano potersi superare anche i problemi di incompatibilità tra presunzione muciana e regime di separazione. Quindi, non si comprende bene per quale motivo l'art. 193 c.c. non avrebbe alcuna funzione se la presunzione muciana non fosse stata implicitamente abrogata anche con riferimento al regime di separazione dimenticando che la separazione giudiziale dei beni emergerebbe il credito per la quota di comunione, che potrebbe sempre farsi valere nel passivo del fallimento.


c.1) Presunzione muciana e comunione legale  
Secondo la giurisprudenza di legittimità di questi ultimi anni l'art. 70 l. fall. sarebbe stato tacitamente abrogato per incompatibilità con la normativa della comunione legale. Questa tesi sarebbe confortata anche dal confronto con i principi costituzionali. A parere della Corte di Cassazione l'art. 70 presupponeva che il regime patrimoniale operante fra i coniugi fosse quello della separazione. La presunzione muciana, afferma la Cassazione, si inseriva in un sistema che prevedeva come regime legale, appunto, il regime della separazione, che comportava la rispettiva indipendenza del patrimonio dei due coniugi e la libertà patrimoniale di ciascuno di essi nei confronti dell'altro. Il regime della comunione, divenuto il regime legale a seguito della riforma del diritto di famiglia, comporterebbe che ogni bene acquistato anche separatamente dall'uno o dall'altro coniuge (art. 177, comma 1, lett. a, c.c.) e a chiunque dei due appartenga il denaro occorrente, diventi di proprietà comune (art. 177, comma 1, lett. a, c.c.), salvo che non si tratti di bene personale (art. 179 c.c.) o di bene destinato all'esercizio dell'impresa appartenente già ad uno dei coniugi soltanto (art. 178 c.c.). Il nuovo assetto patrimoniale dei rapporti tra i coniugi non avrebbe pertanto una sola rilevanza interna, ma avrebbe una importante conseguenza nel rapporto tra i coniugi ed i terzi creditori. Il che si evincerebbe dal fatto che il codice regola il conflitto fra creditori personali di ciascun coniuge e i creditori della comunione (artt. 189 e 190) e limita il diritto dei creditori di ciascun coniuge -compreso quello che viene dichiarato fallito- di aggredire i beni della comunione soltanto fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato (art. 189). Inoltre, tra le cause di scioglimento della comunione è incluso il fallimento di uno dei coniugi (art. 191, comma 1), il che dimostra proprio che i creditori, anche nell'esecuzione coatta concorsuale, possono soddisfarsi sui beni della comunione, nei limiti della parte di competenza del fallito (salvo il ricorso ai rimedi che possono farsi valere, in base alla legge).


c.2) Presunzione muciana e regime di separazione  
Dopo che la Cassazione ha sancito la "fine dimezzata" della presunzione muciana, sembrava che questa avesse potuto continuare ad applicarsi ai coniugi in regime di separazione dei beni. E' passato però ancora qualche anno e si è arrivati a cosiderare l'art. 70 definitivamente abrogato. L'argomento principale a sostegno dell'abrogazione dell'art. 70 ruota intorno all'art. 193 c.c., il quale considera il fallimento ed il dissesto degli affari come presupposto della separazione giudiziale dei beni. Secondo l'orientamento attuale la disposizione sarebbe la principale di un gruppo di norme (insieme agli artt. 181, 182, 183, 184 e 191 c.c.), con le quali si salvaguardia la posizione del coniuge in comunione dell'imprenditore. Si ritiene che se la presunzione muciana non fosse stata abolita anche per il regime di separazione, l'art. 193 c.c. sarebbe completamente svuotato della sua funzione. Infatti, in questo caso, il coniuge che chiedesse la separazione giudiziale peggiorerebbe la sua condizione, visto che tutti i beni sarebbe attratti al fallimento, senza neppure la limitazione possibile nel regime di comunione.


D) Rapporti familiari e diritto tributario  
I concetti giuridici di "rapporti familiari" e di "interesse della famiglia" hanno riflesso anche in campo tributario. L'aspetto che è piu di altri in questa disamina a tal fine rileva è quello del trattamento dell'assegno di mantenimento. Nella casistica giurisprudenziale, invero, spesso si incontra il problema di qualificazione dell'assegno di mantenimento, previsto dalla disciplina della separazione, del divorzio o di annullamento del matrimonio e corrisposto al coniuge o all'ex-coniuge. Questo assegno da un lato è considerato onere deducibile a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), Testo Unico Imposte sui Redditi, da parte dell'obbligato; dall'altro è qualificato come reddito assimilato a quello di lavoro dipendete, ai sensi dell'art. 47 dello stesso Testo Unico. Nel caso in cui detto assegno, nel caso di divorzio, è determinato in unica soluzione, pur rimanendo un onere deducibile, non costituirebbe reddito per il beneficiario. Esso sarebbe attribuito, infatti, a titolo di risarcimento o di rimborso per l'apporto alla vita coniugale fornito dal percipiente. Sotto il profilo civilistico questa impostazione è probabilmente non corretta. Infatti l'assegno di mantenimento, seppure attribuito in unica soluzione, non è riconducibile alla responsabilità civile o all'ingiustificato arricchimento. L'unico dato problematico, sotto il profilo tributario, è se la somma così determinata vada a far parte interamente della base imponibile dell'I.R.P.E.F. nell'anno in cui viene percepita. Sembra preferibile considerare questa somma soggetta a tassazione separata, in analogia a quanto accade per le somme percepite in dipendenza della cessazione dei rapporti di lavoro, anche se non costituiscono una retribuzione differita (in particolare v. art. 16, comma 1, lett. a), che tratta di somme percepite a seguito di accordi transattivi fra datore di lavoro e dipendente).


d.1) Regimi patrimoniali e imposte dirette S@  

La comunione legale, quella convenzionale, il fondo patrimoniale e l'usufrutto legale hanno innanzitutto una rilevanza per quanto riguarda le imposte sui redditi.
Infatti, l'art. 4 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi prescrive che:
-"i redditi dei beni che formano oggetto della comunione, sono imputati per metà del loro ammontare netto a ciascuno dei coniugi; nel caso di comunione convenzionale la quota di imputazione dipende dall'atto di cui all'art. 161 c.c.";
-"sono imputati con lo stesso criterio previsto per la comunione i redditi dei beni del fondo patrimoniale"; inoltre,
-"sono attribuiti ai genitori i redditi derivanti dai beni oggetto dell'usufrutto legale".
L'applicazione di queste disposizioni non ha riservato molti problemi, se non quelli legati alla individuazione dei beni facenti parte, soprattutto, della comunione legale e dell'usufrutto legale.
Tra questi qualche difficoltà è stata posta dalle aziende coniugali, per le quali si riflettono i problemi nella tradizionale interpretazione civilistica. In qualche occasione, infatti, è parso che le aziende in comunione costituissero presuntivamente una società di fatto. Generalmente, tuttavia, si riconosce che i redditi netti da esse prodotti siano reddito di imprese, in capo al coniuge imprenditore, e un reddito di partecipazione per il coniuge cogestore. Questa precisazione, però, ha perso gran parte della sua importanza, dopo che è entrata in vigore la vigente disciplina dell'imposta locale sui redditi.


d.2) Regimi patrimoniali e imposte indirette   
Altre questioni riguardano le imposte indirette, specialmente l'I.V.A., l'Imposta di Registro, l'Imposta di Donazione (e successione) le Imposte Ipotecaria e Catastale e, in quanto ancora applicabile, l'INVIM. Sotto l'influenza della corrente concezione civilistica dei rapporti patrimoniali, si ritiene che questi ultimi siano rilevanti per l'applicazione delle imposte che colpiscono i trasferimenti, quindi, l'attribuzione di un bene ad un regime patrimoniale, la successiva alienazione di questo bene, realizzerebbe il presupposto dell'imposta di registro (e delle imposte che ad essa si richiamano. Imposta di successione e donazione, Imposte Ipotecaria e Catastale e INVIM) determinata in modo proporzionale, potendosi far rientrare negli "Atti traslativi della proprietà di beni immobili in genere e atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento" (art. 1, allegato A - Tariffa, parte I, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), oppure nella stessa tipologia di atti che riguardano i beni mobili (v. art. 2 della stessa Tariffa). Per gli autoveicoli varrebbe lo stesso principio, al fine dell'applicazione della Imposta Erariale di Trascrizione (I.E.T.) e la relativa Addizionale (A.P.I.E.T.), in quanto, come sostiene una circolare del P.R.A. (Direzione centrale sistemi informativi) "la costituzione del fondo patrimoniale, come specifica l'art. 168 c.c., comporta l'acquisto della proprietà in capo ad uno dei due coniugi od al terzo costitutore".
Gli stessi realizzerebbero il presupposto oggettivo dell'imposta sul valore aggiunto, descritto all'art. 2 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 che così recita: "Costituiscono cessioni di beni gli atti che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere". Nutrita è la casistica giurisprudenziale. Si discute -per esempio- quale sia la tassazione della destinazione di un bene al fondo patrimoniale. Secondo una prima tesi, con la destinazione di un bene al fondo si realizzerebbe per una metà un atto di liberalità tra coniugi e come tale colpito dalla Imposta di Successione e Donazione (e dalle altre imposte che utilizzano lo stesso presupposto). Per l'altra metà si tratterebbe di un atto "dichiarativo" a contenuto patrimoniale, tassato con l'imposta proporzionale di registro, con l'aliquota (attuale) dell'1%. Per un'altra tesi, la destinazione al fondo patrimoniale non realizza un trasferimento di un diritto reale, almeno nella ipotesi in cui nulla sia espresso nell'atto. Generalmente, pertanto, la destinazione al fondo patrimoniale sconterebbe l'imposta fissa (ad oggi di £. 250.000) per gli atti pubblici che non hanno contenuto patrimoniale, ai sensi dell'art. 11 della Tariffa citata.
Un'altra questione interessante è quella posta dall'uso da parte del coniuge di un bene, che ricade nella comunione legale, per l'esercizio della sua attività di impresa. Si ritiene che in questo caso, indipendentemente dalla titolarità del medesimo bene, la successiva alienazione sia tassata per una metà, quella riferibile al coniuge imprenditore, con l'imposta sul valore aggiunto; per l'altra metà, quella del coniuge non imprenditore, con l'imposta di registro proporzionale. Per un altro orientamento giurisprudenziale il bene di proprietà del coniuge non imprenditore, essendo stato destinato alla attività di impresa dell'altro coniuge, deve essere interamente assoggettato all'imposta sul valore aggiunto.