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La libertà informatica e il diritto di accesso ad Internet

Scritto da Guido D'Ippolito

Con il passare del tempo, soprattutto negli ultimi anni, Internet ha acquistato una rilevanza giuridica non più trascurabile. Il Web è infatti passato dall’essere una situazione che poteva influenzare piccoli e ben delimitabili ambiti della vita, creando a volte problemi di applicazione normativa, a un fenomeno sociologico capace di risalire fino ai cc.dd. “rami alti dell’ordinamento”, acquisendo rilevanza costituzionale e lambendo sempre più lo status di diritto.

 

1.   Il diritto di libertà informatica

Dal punto di vista costituzionale si può constatare come Internet abbia esteso i tradizionali diritti: dalla libertà di espressione o di riunione e associazione, al diritto alla salute, all’iniziativa economica privata, al lavoro, allo studio, ai diritti politici e molti altri ancora.

Tra questi la dottrina sta sempre più focalizzando l’attenzione su quello che la Corte Costituzionale ha più volte definito come il «cardine» o la «pietra angolare» della democrazia, ossia la libertà di espressione e quindi l’art. 21 della nostra Costituzione. L’avvento di Internet ha infatti dato piena attuazione all’endiadi «diritto di esprimersi liberamente e diritto di utilizzare ogni mezzo» che si può rinvenire nell’art. 21 Cost. ma che, sia per motivi tecnici e sia perché era impossibile riconoscere a tutti un diritto di accesso ai mezzi di comunicazione più potenti (si pensi alla stampa, alla radio o alla televisione), la Corte Costituzionale è sempre stata costretta a negare a favore di un più facilmente realizzabile «diritto all’uso dei mezzi di cui si abbia giuridica disponibilità», subordinando la libertà di manifestazione del pensiero al limite del «tecnicamente possibile» (ex multis si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 105/1972).

Internet estende la portata dell’art. 21 Cost. perché permette a tutti ed a costi bassissimi di esprimere il proprio pensiero non solo con riferimento al titolare del diritto («tutti hanno il diritto…») e l’oggetto del pensiero («di manifestare liberamente il proprio pensiero…») ma anche con riferimento alle modalità e soprattutto all’accesso al mezzo. Come strumento di comunicazione di massa, per le sue caratteristiche tecniche, Internet si dimostra molto più potente dei tradizionali mass media e, ciononostante, è anche quello più fruibile: tutti vi possono accedere e tutti vi possono esprimere liberamente il proprio pensiero in un ambito spazio/temporale illimitato. La Rete si configurerebbe, quindi, come uno strumento rivoluzionario in quanto per la prima volta permetterebbe di parlare di un vero e proprio diritto al mezzo e quindi del c.d. diritto di accesso ad Internet.

Tanto più è possibile parlare di Internet come un diritto fondamentale se si considera che questo non dà solo piena attuazione dell’art. 21 Cost., ma soprattutto giustifica l’affiancamento allo stesso di un nuovo diritto: la c.d. libertà informatica[1] .

Questo perché, oltre ad essere uno straordinario mezzo di comunicazione di massa, Internet costituisce un vero e proprio luogo entro il quale è possibile non solo esprimere e diffondere il proprio pensiero ma anche interagire con altri, riunirsi e associarsi, esercitare i diritti costituzionalmente tutelati, adempiere obblighi e doveri ed infine usufruire di servizi sia tradizionali che innovativi.

Proprio le caratteristiche del Web, che innovano le modalità di comunicazione tra cittadini e tra questi ultimi e la PA, e che crea nuovi spazi entro i quali l’uomo può svolgere la sua personalità, sia come singolo sia come formazione sociale (art. 2 Cost.), giustificano l’affiancamento alla libertà di espressione della libertà informatica.

La differenza tra la libertà di espressione ex art. 21 Cost. e la libertà informatica sta nel fatto che mentre la prima tutela solo l’espressione e la diffusione del pensiero, la seconda tutela anche il valore della condivisione e dell’interazione sociale. La libertà informatica, che pure ha la sua base o il suo “zoccolo duro” nel diritto di cui all’art. 21 Cost., ha in più un aspetto sociale che si rinviene nella possibilità di creare aggregazione e strutture, più o meno stabili, intorno all’espressione del proprio pensiero. Quindi la possibilità non solo di diffondere la propria idea, ma anche di svilupparla tramite l’interazione con gli altri consociati e partecipare attraverso questa alla vita dell’ordinamento e degli ordinamenti in esso contenuti.

La libertà informatica, nella sua interpretazione più recente, può essere definita quindi come il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero in Internet, di informare e di essere informati, di trasmettere e ricevere informazioni, ma è anche e soprattutto la conseguente facoltà di costruire un rapporto e creare aggregazioni, più o meno stabili, intorno al proprio pensiero o alle informazioni e notizie diffuse interagendo con gli altri consociati. Ciò fa della libertà informatica il diritto fondamentale, la pietra angolare, il cardine della società futura (la c.d. «Information and Communication Society» o «società della Conoscenza»[2]), così come la libertà di espressione è il diritto fondamentale delle tradizionali democrazie.

2.   Il diritto di accesso ad Internet

Logicamente propedeutico alla libertà informatica, perché si pone come precondizione per l’esercizio sul Web di tutti i diritti costituzionali, è il diritto di accesso ad Internet. Infatti solo riconoscendo questa facoltà si possono tutelare e garantire a tutti i progressi che Internet sta realizzando in ogni campo. E tanto più alta è la fonte che riconoscerà come un diritto sociale l’accesso ad Internet, tanto più l’infinito contenuto di conoscenza della Rete sarà patrimonio dell’uomo.

L’avvento di Internet ha infatti comportato il sorgere di una nuova società, la c.d. pay-per-use society, in cui ciò che è importante non è più il possesso di un bene bensì la possibilità di avervi accesso in qualunque momento e da qualunque luogo. Il diritto di accesso acquisisce così sempre più rilevanza a discapito del diritto di proprietà, istituto non più centrale come un tempo. Accesso e proprietà si presentano dunque come categorie autonome che possono anche entrare in conflitto in quanto si può godere di un bene senza esserne necessariamente proprietari, basta che sia assicurata la possibilità di avervi accesso quando se ne ha bisogno. Per questo la costituzionalizzazione del diritto di accesso, usando la tradizionale terminologia, segnerebbe il passaggio  da una proprietà “esclusiva” a una proprietà “inclusiva”. In questo modo si avrebbe un diritto di proprietà sprovvisto di un suo requisito qualificate, lo ius exludendi alios, in quanto si legittimerebbe la possibilità che al medesimo bene facciano capo soggetti e interessi diversi, spostando l’attenzione dall’esclusione all’accessibilità[3].

Riconoscere l’accesso ad Internet come diritto sociale[4]  (e quindi come pretesa del cittadino nei confronti dello Stato di accedere liberamente, a prezzi contingentati[5], alla rete Internet e, parallelamente, nell’obbligo dello Stato di garantire e rendere possibile a tutti e su tutto il territorio nazionale l’accesso) vuol dire tutelare l’esercizio di queste situazioni non solo da eventuali ingerenze degli Stati, che potrebbero avere interesse a restringere (se non addirittura censurare) l’uso del Web (si pensi a Stati come la Cina o Cuba), ma anche dalle ingerenze di altri utenti di Internet più forti e aggressivi come i cc.dd. Over the Top, ossia le grandi multinazionali quali Apple, Microsoft, Google o Facebook che, operando quasi come dei monopolisti, potrebbero imporre con forza i loro interessi. Inserire Internet in Costituzione vorrebbe anche dire garantire e tutelare gli utenti, e quindi i cittadini, dalle asettiche regole economiche.

Riconoscere il diritto di accesso ad Internet in Costituzione è quindi «una battaglia di civiltà»[6]  che creerebbe una società più istruita, consapevole e civile. L’accesso ad Internet vuol dire accesso per tutti «dal luogo e nel momento scelti individualmente»[7] alla conoscenza universale, all’esercizio con modalità innovative dei diritti costituzionali, all’adempimento più agevole degli obblighi, al rilancio dell’economia[8]  e alla possibilità di usufruire di nuovi e rivoluzionari servizi.

 Inoltre il riconoscimento del diritto di accesso a Internet permetterebbe di rimuovere sia le vecchie forme di discriminazione[9], sia quelle nuove come l’analfabetismo informatico, e quindi la persistente presenza di cittadini che non conoscono a sufficienza i meccanismi di funzionamento dei computer, e il c.d. digital divide, ossia l’esclusione di fasce di popolazione, ancora piuttosto ampie, dalle tecnologie digitali. Due fenomeni che attualmente realizzano di fatto una discriminazione, in termini di accesso ai servizi, alla cultura, ai nuovi strumenti elettronici e in generale ai vantaggi portati dalla Rete, tra chi può permettersi l’accesso e la connessione a Internet e chi no.

Riconoscere e costituzionalizzare il diritto di accesso ad Internet vuol dire quindi adempiere e dare piena attuazione all’art. 3 secondo comma Cost.

3.  Anarchia / regola e autoregolazione / eteroregolazione

Resta da vedere soltanto come riconoscere il diritto di accesso ad Internet e i nuovi diritti che ne conseguono, primo fra tutti la libertà informatica.

A questo proposito vi è chi ritiene inopportuna e inefficacie una disciplina statale perché rischierebbe di cristallizzare una realtà in rapido e continuo divenire o perché, avendo la Rete portata mondiale, un singolo Stato non sarebbe capace di regolarla, in quanto fenomeno che va oltre i suoi confini.

La disciplina del diritto di accesso e della libertà informatica si inserisce nella più ampia esigenza di giungere ad una regolamentazione di Internet che, a sua volta, affonda le radici nelle problematiche tipiche del costituzionalismo e quindi nel rapporto tra la libertà e l’autorità e tra i diritti e l’ambiente in cui questi sono riconosciuti. E così anche per la libertà informatica, al pari di ogni altra libertà, e per Internet in generale, ci si chiede chi sia il Legislatore o chi sia il Costituente[10] . Sono gli stessi utenti di Internet, i c.d. Internauti, a disciplinarne i vari aspetti e diritti conseguenti, oppure è lo Stato a riconoscere e disciplinare questi nuovi spazi di libertà? E ancora, sono gli utenti di Internet o è lo Stato che si arroga il diritto di stabilire quando e fin dove c’è libertà?

Da queste domande nascono due dicotomie: anarchia/regola e autoregolazione/ eteroregolazione, le quali vanno poi contestualizzate in uno spazio scisso tra l’ambito nazionale e internazionale o, come l’ha definita ZygmuntBauman, realtà «Glo-cal».

Le due dicotomie riassumono i modi, agli antipodi, di vedere la Rete. Vi è chi ritiene che Internet – e tutte le libertà e i diritti da esso creati -  sia e debba rimanere un fenomeno libero (anarchia), un mondo che gli Stati non saprebbero e non dovrebbero disciplinare perché ciò ne soffocherebbe la portata rivoluzionaria[11]. Dalla parte opposta vi è chi sottolinea che una regolamentazione sia necessaria per tutelare gli utenti più deboli (regola), come i minori che devono essere salvaguardati dai contenuti per adulti, o le minoranze sociali, i consumatori o in generale tutti quegli utenti che entrano in contatto con utenti economicamente più potenti. E all’interno di questa seconda concezione della Rete vi è chi propende per una regolamentazione di Internet fatta dagli stessi utenti, in quanto i soli a comprenderne il funzionamento e quindi capaci di disciplinarlo (autoregolazione)[12], e chi invece ritiene che sia necessario l’intervento autoritativo dello Stato, per garantire il rispetto e l’applicazione di queste norme, che altrimenti avrebbero mero valore ed efficacia negoziale, e così tutelare gli interessi di tutti, minoranze comprese (eteroregolazione).

A completare il quadro si tenga presente poi la portata sovranazionale e internazionale di Internet che, pur avendo effetti e influenze locali, opera e agisce a livello globale spingendo alcuni a vedere con sfavore qualunque regolamentazione statale della Rete, perché rischierebbe di realizzare troppe e troppo contrastanti discipline dello stesso fenomeno, e chi invece auspica una regolamentazione tramite convenzioni internazionali o regionali o ad opera di enti sovranazionali.

Il riconoscimento del diritto di accesso ad Internet in primis, e della libertà informatica poi, per via costituzionale, vuol dire risolvere le due dicotomie prendendo atto che ogni società ha bisogno di regole per garantire il corretto e non lesivo uso dei diritti a tutti, e che si può creare una disciplina che preveda l’integrazione tra le conoscenze e la valorizzazione degli aspetti peculiari del Web da parte degli Internauti con l’autoritatività e la tutela dei più deboli della disciplina statale.

La prima dicotomia viene quindi risolta a favore della regola, e la seconda con un sistema ibrido di c.d. coregolazione (sistema di co-regulation[13]), al fine di sommare i vantaggi di entrambe le discipline. In concreto, ciò permetterebbe allo Stato di recepire in un proprio atto e integrare la disciplina scritta dagli utenti di Internet o, con un percorso inverso, stabiliti da parte dello Stato i principi, le esigenze e le garanzie minime, delegare agli utenti e operatori del Web la disciplina di dettaglio.

Il messaggio di politica legislativa, che si può ricavare da queste esperienze, sarà allora che l’autoregolazione richiede una cornice eteronoma entro cui muoversi[14] .

Per quanto riguarda la portata Glo-cal di Internet, sebbene sia auspicabile una disciplina omogenea e a livello internazionale del Web, ciò non impedisce comunque ai singoli Stati di riconoscere l’accesso ad Internet come diritto costituzionale.

4.  Costituzionalizzazione della libertà informatica e del diritto di accesso ad Internet

E così, passando dall’astratto al concreto, mentre la strada migliore per riconoscere in Costituzione il diritto di accesso ad Internet pare essere solo quella della revisione costituzionale ex art. 138 Cost., per la libertà informatica sembra più agevole il ricorso alla teoria dei nuovi diritti[15] .

Sulla base dell’interpretazione dell’art. 2 Cost. come norma aperta e che quindi permette l’ingresso nel nostro ordinamento di diritti ulteriori rispetto a quelli specificamente tipizzati dalla Costituzione[16], è possibile rintracciare nel testo costituzionale quelle norme dalle quali si potrebbe far “emergere” il nuovo diritto di libertà informatica.

La libertà di espressione a mezzo Internet è così ampia e permette così tante modalità e finalità diverse di comunicazione, che i riferimenti in Costituzione potrebbero essere più di uno. E infatti oltre agli artt. 15 e 21 Cost., si potrebbe richiamare anche l’art. 19, il 33 primo comma e il 34. E ancora di più si può fare se si pensa che la libertà informatica permette la partecipazione e l’interazione sociale, politica, economica, come anche di entrare in contatto sempre più stretto con le Pubbliche Amministrazioni e gli organi dello Stato, consentendo così di richiamare articoli come il 17 e il 18, vista la possibilità di riunirsi e associarsi su Internet, l’art. 32 e la conseguente possibilità di ricorrere alla telemedicina, e così ancora il 35, il 37, il 41, il 50, il 51 e, andando ancora più in là con lo sguardo, anche il 48.

Su questa base, qualora un domani la Corte Costituzionale dovesse ritenere la libertà informatica un diritto meritevole di tutela costituzionale e i tempi maturi, da un punto di vista sia politico che giuridico che sociale, per l’introduzione di un simile diritto, nulla le impedirebbe di riconoscerla come nuovo diritto costituzionale.

Lo stesso non si può fare col diritto di accesso ad Internet, in quanto esso è diretto a costituzionalizzare una situazione che non ha validi agganci costituzionali e che, da una dottrina ancora maggioritaria, è considerata solo un mezzo o uno strumento non equiparabile a una situazione giuridica soggettiva. L’unica soluzione sarebbe quindi quella di introdurre il diritto di accesso attraverso la riforma costituzionale, come di fatto già proposto da autorevoli autori[17]  ma anche, ultimamente, forze politiche[18]. Questi tentativi non hanno però raggiunto il loro fine per cause prettamente di natura politica.

Ritenendo comunque necessario sottolineare la necessità e i vantaggi che deriverebbero allo Stato che per primo al mondo qualificherebbe l’accesso ad Internet come un diritto, non si può non rilevare come le precedenti proposte di riforma presentino alcune criticità. In particolare queste commettevano l’errore di collegare l’accesso ad Internet all’esercizio della libertà di espressione. È questa una visione restrittiva e limitativa delle potenzialità di Internet perché l’accesso alla Rete non è solo un mezzo per esprimere il proprio pensiero, ma anche per interagire, riunirsi e associarsi con altri, ottenere cure mediche tramite la telemedicina, porre in essere operazioni di c.d. e-banking o e-commerce, intrattenere rapporti con le Pubbliche Amministrazioni, pagare le tasse, realizzare la c.d. democrazia digitale e molto altro ancora. In definitiva, costituzionalizzando il diritto di accesso non si espande solo la libertà di cui all’art. 21 Cost., ma anche le altre e, in definitiva, si integra ed incrementa lo status di cittadino (art. 2 Cost.).

In conclusione, quindi, una costituzionalizzazione del diritto di accesso dovrebbe essere effettuata tramite riforma costituzionale ma con l’inserimento del suddetto diritto non in un art. 21bis o in un comma dell’art. 21, quanto in una disposizione a se stante, con una propria autonomia, magari tra i diritti fondamentali, in modo da potersi collegare e riferire non solo alla libertà di espressione ma anche a tutti i diritti costituzionali.

Solo tramite il riconoscimento giuridico di questi ultimi, la libertà informatica per via interpretativa e l’accesso ad Internet attraverso la riforma ex art. 138 Cost., si può evitare che Internet diventi un luogo in cui l’anarchia, che si risolverebbe presto nell’applicazione della legge del più forte, realizzi di fatto una repressione e negazione dei diritti e solo così, tramite sistemi c.d. di co-regulation , affiancati tramite il principio di sussidiarietà orizzontale al c.d. costituzionalismo multilevel o multistakeholder, si realizzerebbe una disciplina effettivamente rispettosa della realtà del Web.



[1] Risulta opportuno fare chiarezza sul nomen iuris di questa nuova situazione giuridica, in quanto l’espressione «diritto di libertà informatica» è già conosciuta alla dottrina per indicare altri fenomeni. In origine, tra gli anni ’80 e ’90 del ‘900, l’espressione fu coniata in reazione alla diffusione delle grandi banche dati le quali sollevavano problemi di gestione e controllo dei dati personali in queste contenute. La libertà informatica nasce quindi prettamente come diritto di difesa a tutela della libertà personale, e in origine indicava la facoltà del soggetto di controllare il trattamento dei propri dati personali e impedire o gestire l’inserimento di questi nelle banche dati. La dottrina statuì che così come si è liberi di disporre della propria persona allo stesso modo si può disporre dei propri dati personali e quindi, questa nuova situazione giuridica soggettiva è anche conosciuta come Habeas Data, con evidente richiamo all’Habeas Corpus della Magna Charta.  (FROSINI T. E., Tecnologie e libertà costituzionali, in Dir. Informatica 2003, 03, 487; RUSSO S. e SCIUTO A., Habeas Data e informatica, Giuffrè Editore, Milano, 2011.)

Con la diffusione delle tecnologie informatiche e dei nuovi mezzi di comunicazione la libertà informatica smette di essere semplicemente un diritto di difesa per assumere la più complessa connotazione di un diritto attivo di partecipazione del cittadino al circuito delle informazioni e, passando per l’essere il diritto ad essere rappresentati ai terzi con dati personali veri, diventa la libertà di fruire degli strumenti tecnologico-informatici per comunicare e per informarsi ed essere informati. In questa evoluzione la libertà informatica perde i suoi legami con l’art. 13 Cost. per rinvenirli nell’art. 21 Cost.. Questa è l’accezione di libertà informatica a cui ancora fa riferimento la dottrina maggioritaria ossia come libertà di esprimere la propria personalità avvalendosi di sistemi di comunicazione automatizzati (FROSINI T. E., Tecnologie e libertà costituzionali, in Dir. Informatica 2003, 03, 487).

In questa trattazione però si parla di libertà informatica in senso ancora più evoluto, come espansione dell’art. 21 Cost. comprendente anche il diritto a condividere le informazioni e creare aggregazione e strutture più o meno stabili intorno a queste e quindi configurandosi come un diritto di partecipazione alla società tramite la diffusione del proprio pensiero (FROSINI V., L’orizzonte giuridico dell’Internet, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2000).

La comprensibile confusione tra i termini giustifica però l’attribuzione a quest’ultima situazione giuridica di un diverso e miglior nomen iuris; un esempio può essere «diritto di interazione digitale».

[2]  RODOTÀ S., Il diritto di avere diritti, editori Laterza, Roma – Bari, 2013, p. 135.

 [3] RODOTÀ S., Il diritto di avere diritti, op. cit. pp. 105 e ss.

[4]  La dottrina, parlando di banda larga o super larga (le cc.dd. next generetion networks, NGNs), arriva a codificare  il diritto alla connessione veloce ossia «la pretesa nei confronti dello Stato perché provveda a coprire diffusamente e omogeneamente il territorio nazionale con la banda larga in modo da permettere al pretendente, ovunque risieda e a un prezzo abbordabile, di navigare in rete alla velocità idonea per partecipare alle comunità virtuali, telefonare tramite Internet e ricevere dall’amministrazione i servizi digitali». Così DE MINICO G., Internet Regola e anarchia, Jovene Editore, Napoli, 2012, p. 127. 

[5] Qualificare l’accesso ad Internet come un diritto, più specificamente inquadrato nella categoria dei diritti sociali, non significa certo che ogni cittadino avrà garantito l’accesso gratuito alla rete. Vuol dire che sarà obbligo dello Stato garantire e rendere possibile a tutti l’accesso alla Rete invogliando gli imprenditori e i gestori che forniscono servizi di accesso ad Internet a diffondere la banda larga uniformemente su tutto il territorio nazionale. L’accesso ad Internet diventerebbe un servizio garantito dallo Stato un po’ come la sanità, la scuola pubblica e i servizi ferroviari. Ciò comporterebbe senza dubbio dei costi in più per lo Stato ma questi verrebbero compensati da un aumento delle attività commerciali che sfruttano il Web, dall’attrazione del capitale e degli investitori esteri e dall’aumento dei servizi su Internet in quanto tutti, sia cittadini che imprenditori, potrebbero accedere ad Internet a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato. Per una lettura più approfondita e un’analisi più dettagliata di quanto affermato si legga: DE MINICO G., Internet Regola e anarchia, Jovene Editore, Napoli, 2012.

[6] RODOTÀ S., Il diritto di avere diritti, op. cit., pp. 105 e ss.

[7]  È la formula usata dagli artt. artt. 16 e 17 della legge 633 del 1941 che parlano di «messa a disposizione del pubblico di opere in modo che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente». La legge sul diritto d’autore, anche nella parte relativa alle cc.dd. Misure Tecnologiche di Protezione (TPMs), è una delle poche leggi che più tiene conto delle innovazioni di Internet.

[8]  Il riconoscimento del diritto di accesso ad Internet, permettendo e incentivando gli operatori economici a svolgere meglio le loro attività, si porrebbe anche come «diritto anticamera dell’iniziativa economica». Così in DE MINICO G., Internet Regola e anarchia, Jovene Editore, Napoli, 2012, p. 45.

[9] Si tratta delle tradizionali forme di discriminazione, come quelle basate sul censo o sulla condizione sociale. Prima di Internet infatti, non tutti avevano la possibilità di attingere a determinate informazioni, o usufruire di particolari servizi, o esercitare adeguatamente alcuni diritti. Si pensi per esempio che oggi è possibile seguire on line corsi universitari, anche di università prestigiose a livello internazionale; oppure oggi si può accedere a costi bassissimi a servizi di videoconferenza o alla c.d. telemedicina; e gli esempi potrebbero continuare per molto.

[10] DE MINICO G., Internet Regola e anarchia, Jovene Editore, Napoli, 2012, p. 199.

[11] Significativa è la «Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio» di John Perry Barlow il cui incipit recita « Governi del Mondo, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo».

[12]  È il c.d. sistema di soft law che ha avuto però risultati spesso deludenti in quanto non si riusciva a proteggere i soggetti più deboli e valori oggettivi. In Italia si pensi al Codice di autoregolamentazione Internet e minori che finì per realizzare una disciplina favorevole ai soli Internet Providers e per di più di natura negoziale, senza la forza cogente della legge. Per fare altri esempi, anche al di fuori del panorama italiano, si può pensare alle autodichiarazioni sull’età di chi si iscrive ai social network, ritenute in tutto e per tutto valide da Facebook, alle clausole di esonero da responsabilità per i contenuti illeciti caricati su YouTube e Google o altre piattaforme, alle clausole con le quali il gestore si riserva il diritto di sospendere il servizio «per qualunque motivo o senza nessun motivo», o quelle che, con formule più o meno valide giuridicamente, dichiarano l’applicazione della legge e la competenza, in caso di controversia, del giudice inglese o di uno Stato degli USA.

[13]  Quella della co-regulation è una figura ibrida che ha la base nel naturale evolversi del diritto dei privati, propria della self-regulation, ma che riconosce la necessità della presenza di un soggetto autoritativo, il quale concederà la forza tipica dei suoi atti in cambio di una riduzione dell’autonomia negoziale degli autori privati. Così DE MINICO G., Internet Regola e anarchia, Jovene Editore, Napoli, 2012, pp. 13 e ss

[14] DE MINICO G., Internet Regola e anarchia, Jovene Editore, Napoli, 2012, pp. 20 e ss.

[15] Parte della dottrina giudica infatti troppo rischioso il ricorso all’art. 138 Cost. sia perché si rischierebbe di aprire la via a «inopinate modifiche della prima Parte della Costituzione, che neanche l’argomento dell’irrivedibilità del nocciolo duro delle libertà fondamentali riuscirebbe, per l’indeterminatezza del contenuto, ad arginare» (DE MINICO G., Internet Regola e anarchia, Jovene Editore, Napoli, 2012, p. 198), o anche perché «Non ce n’è bisogno […].Reclamare innovazioni costituzionali a giorni alterni […] rischia a conti fatti di svilire l'autorità della legge fondamentale, di farla percepire agli italiani come un ferro vecchio» (AINIS M., La libertà sulla rete e i suoi angeli custodi, in Il Sole24Ore, 27/01/11, consultabile al sito: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-01-27/liberta-rete-suoi-angeli-063800.shtml?uuid=AaBG7H3C&fromSearch). 

[16] MODUGNO F., I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, Giappichelli, Torino, 1995, p. 1.

[17] È il caso della proposta di revisione costituzionale portata avanti da Rodotà il quale il 29 novembre 2010 all’Internet Governance Forum Italia propose il testo di un eventuale art. 21bis, poi ripreso dal Disegno di legge costituzionale n. 2485, presentato il 6 dicembre 2010 al Senato della Repubblica. Il testo del disegno di legge è consultabile al seguente link: http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00519114.pdf

Alcune osservazioni di Azzariti poi, indussero Rodotà a preferire la collocazione di quest’eventuale modifica costituzionale come emendamento all’art. 21 piuttosto che come art. 21bis (AZZARITI G., Internet e Costituzione, in Costituzionaismo.it; fascicolo 2, 6/10/2011).

[18]  Il movimento 5 Stelle propose anch’esso un disegno di legge costituzionale, quasi identico a quello derivante dalla proposta di Rodotà, n. 1058 del 27 maggio 2013. Si veda il link: http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/41087.htm