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La Cassazione rivisita il reato di ingiuria alla luce della mutata coscienza sociale

Scritto da Andrea Filippini

Con recente sentenza - n. 41752/01 - la Cassazione Penale ha annullato la condanna inflitta ad un giovane automobilista che, con frase colorita - equivalente ad un 'non rompere le scatole' - si era rivolto ad altra persona, in seguito ad un banale alterco per motivi legati alla circolazione stradale.
Questi brevemente i fatti: il sig. Francesco, uscendo da un parcheggio con la propria auto, sfiora pericolosamente un'altra persona; alle rimostranze di quest'ultimo, certamente contenute ('ma che cosa stai facendo?') il sig. Francesco risponde però con frase quanto meno vivace: 'non rompermi i c...'. La vicenda, dopo la condanna del Sig. Francesco per il delitto di ingiuria, è quindi approdata davanti alla Suprema Corte, che ha colto l'occasione per rivisitare la fattispecie p. e p. dall'articolo 594 del c.p., adeguando il reato de quo alle mutazioni intervenute nella coscienza sociale.
Sembra innanzi tutto opportuno ricordare che il reato di ingiuria si consuma quando qualcuno 'offende l'onore o il decoro di una persona presente', dovendosi intendere con il primo termine 'l'insieme delle qualità morali della persona' e con l'altro 'il complesso di quelle altre qualità e condizioni che determinano il valore sociale della persona' (Cass. Pen. n. 4845 del 04/04/90).
Nel caso de quo dunque la Cassazione non ha rinvenuto gli estremi dell'offesa all'onore o al decoro di una persona e, rifacendosi a precedenti giurisprudenziali risalenti, ('la tutela penale dell'onore ex. art. 594 cod. pen. deve limitarsi ad un minimum certo, nel senso che, al fine di accertare se sia stato leso il bene giuridico protetto dalla norma, occorre basarsi su una media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore' - Cass. Pen. n. 8980 del 28/11/74) ha integrato le proprie argomentazioni in punto di legittimità con un riferimento all'ambiente sociale nel quale il fatto ha trovato il suo alveo: 'al fine di stabilire la differenza tra volgarità ed ingiuria occorre basarsi su una media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e al contesto nel quale la frase è stata pronunciata'. Appare evidente, rispetto alla sentenza del 1974, l'inserzione dell'elemento 'contesto', da intendersi esclusivamente come ambiente sociale e/o situazione contingente in cui il fatto stesso si è verificato.
Il 'contesto' della vicenda permette dunque di rileggere la frase pronunciata e di 'attualizzarla', sia rispetto agli intervenuti mutamenti della coscienza sociale, sia rispetto a determinati ambienti, come ad esempio 'quello giovanile e quello degli automobilisti, che utilizzano con frequenza e disinvoltura un linguaggio molto volgare'. La Cassazione spiega insomma che non è possibile perseguire dei comportamenti che la coscienza sociale si è ormai abituata a tollerare come normali, soprattutto in determinate circostanze ed ambienti; le volgarità gratuite, grazie anche ad alcuni moderni mezzi di comunicazione, sono infatti, secondo l'opinione dei giudici del Palazzaccio, definitivamente entrati nel linguaggio, 'tanto da essere utilizzate come intercalare o come rafforzativi del pensiero'; in questa situazione l'utilizzo di espressioni volgari è certamente riprorevole ed indice di scarse capacità espressive, ma non lede l'onore del destinatario e non può pertanto valere una condanna ex articolo 594 c.p.
Questo dunque il contenuto dell'innovativa sentenza n. 41752/01 della Cassazione; giova peraltro osservare che la disposizione dell'articolo 594 del c.p. si riferisce, al fine di individuare il contenuto della fattispecie del reato de quo, ai concetti dell'onore e del decoro, così come già precisati dalla stessa Cassazione nella sentenza poc'anzi riportata. Tali concetti evidentemente trovano il loro significato concreto nella realtà sociale, per cui l'evolversi - anche se in senso deteriore - di tale realtà, muta i termini della loro tutelabilità; ne consegue che l'onore ed il decoro di una persona risulteranno salvaguardati solamente di fronte a manifestazioni che, nella coscienza sociale, (intesa come modo comune di sentire e di giudicare determinati comportamenti in una determinata società ed in un determinato momento storico) appaiono intollerabili.
L'imbarbarimento culturale, a giudizio della Cassazione, ha quindi portato la nostra società a tollerare alcuni comportamenti, non giudicandoli più come manifestazione di offesa, bensì come fenomeni solo eticamente riprorevoli. Sembra pertanto di poter concludere che l'articolo 594 del c.p. non tutela l'individuo in quanto tale (ed infatti è bene notarlo, il destinatario della frase ingiuriosa si è sicuramente sentito leso nel suo onore e nella sua dignità, tanto da coltivare per tre gradi di giudizio la vicenda), bensì solamente in relazione a concetti che 'vivono' nella nostra società e ad essi si adeguano costantemente; il che è sicuramente giuridicamente corretto, in quanto il diritto è al servizio della società e deve adeguarsi ai suoi mutamenti, ma risulta quanto meno pericoloso, non tanto perché la coscienza sociale non sempre coincide con quella individuale, (anche perché il compito del diritto stesso, come appena detto, non può che essere quello di tutelare la lesione della coscienza individuale solo se ed in quanto questa sia stata lesa secondo il metro della coscienza sociale) quanto perché, come espressamente affermato dalla Suprema Corte, il mutamento della coscienza sociale nella società contemporanea è oggi imposto ab externo: 'La coscienza sociale' - scrivono i giudici della Suprema Corte - 'si è arresa di fronte al diffondersi di gratuite volgarità, fatte circolare anche attraverso il mezzo televisivo'. Se ciò è sicuramente vero, sembra appunto pericolosa la scelta di adeguare concetti quali l'onore o il decoro di una persona a cambiamenti che, più che essere maturati spontaneamente in seno alla società, vengono ad essa imposti dai mezzi di comunicazione di massa.
Altro motivo di interesse della sentenza n. 41752/01 si rinviene poi nel mutamento giurisprudenziale intervenuto rispetto alla sentenza n. 5708 del 17/06/86; in tal caso infatti la Cassazione affermò la sussistenza del reato di ingiuria nella pronuncia della (ben più delicata!) frase 'non rompere le scatole'; la Cassazione rinvenne infatti in tale espressione un significato manifestamente dispregiativo ed un contenuto indubbiamente lesivo del decoro 'anche perché è notorio il suo riferimento allusivo agli organi genitali, cui la condotta dell'interlocutore arrecherebbe disturbo'. Insomma, esattamente al contrario di quanto accade oggi, per la Cassazione del 1986 tale espressione non era 'semplicemente espressiva di una mentalità e di un linguaggio non improntati a correttezza di rapporti con il prossimo', bensì viceversa essa era senz'altro 'idonea a ledere l'altrui personalità morale, specie quando la frase stessa venga utilizzata per manifestare il proprio disprezzo'.
Sembra pertanto di poter concludere che il differente giudizio della Cassazione su due casi sostanzialmente simili, quali quelli delle sentenze n. 5708/86 e n. 41752/01, evidentemente riflette i cambiamenti intervenuti nella coscienza sociale ed interpreta i sentimenti della stessa, facendo sì che il diritto 'viva' nella società.

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