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Ancillary Copyright e prospettive applicative all’informazione digitale

Scritto da Alessandro Romano

La questione relativa al cd. ancillary copyright, la previsione cioè di una fee, in capo agli aggregatori di notizie online, per lo sfruttamento del diritto d'autore correlato agli articoli 'aggregati', costituisce nient'altro che una declinazione digitale delle contrapposte istanze tradizionalmente collegate alla privativa autoriale: se da un lato, infatti, emerge con prepotenza il diritto di autori ed editori a vedere riconosciuto e remunerato lo sfruttamento dell'opera che avviene mediante attività di linking o di indicizzazione, dall'altro non è possibile dimenticare l'altra prospettiva sottesa al sistema di pesi e contrappesi della tutela del diritto d'autore, e cioè quella teoria dell'encouragement of learning già presente nello Statute of Anne del 1710, che tutt'oggi imprime i necessari limiti alla tutela, creando una vera e propria valvola di sicurezza che consente - se non il libero sfruttamento delle opere - quantomeno il contemperamento dell'interesse privato economico con l’interesse pubblico alla diffusione della cultura, alla libertà d'informazione e al progresso scientifico della società.

Innestato in tale dibattito secolare, il concetto di ancillary copyright va analizzato sotto differenti prospettive, nel tentativo di comprenderne, in primo luogo, la legittimità nel quadro normativo europeo e, in secondo luogo, la capacità di concorrere al bilanciamento di interessi appena menzionato.

Non appare estraneo alla finalità del presente lavoro sottolineare, in prima battuta, che l’ancillary copyright non si identifica con il copyright giuridicamente inteso, e non ne costituisce una parte; esso piuttosto agisce, nei paesi che già hanno accolto tale istituto nel proprio ordinamento, come una sorta di tassa avente però natura privatistica, una fattispecie estranea al copyright eppure capace di creare 'titoli giuridici' sui contenuti soggetti alla privativa.
Risulta d'altronde opportuno, prima di addentrarsi nel dibattito non solo giurisprudenziale, ma anche culturale, creatosi attorno all'istituto in discorso, riportare due esperienze a questo relative, avveratesi nel contesto europeo, e precisamente in Germania e in Spagna.

Gli emendamenti apportati nel 2013 al German Copyright Act hanno previsto in capo agli aggregatori di news la responsabilità per la messa a disposizione del pubblico di parti di articoli e di news, prevedendo tuttavia precisi limiti soggettivi e oggettivi:

- sotto il profilo soggettivo, la responsabilità sorge come detto in capo ai soli aggregatori di news, con esclusione dei privati che non perseguano uno scopo di lucro nella loro attività di diffusione della notizia;
- sotto il profilo oggettivo, sono esclusi dalla protezione i piccoli estratti di testo (cd. ‘small text excerpts’): tale esclusione, che pure appare in qualche maniera coerente con i dettami della Conferenza di Stoccolma del 1967 di cui si dirà più avanti, immette tuttavia nel sistema elementi di discrezionalità, legati alla valutazione della significatività delle parti di opere editoriali messe a disposizione del pubblico.

Caso analogo è quello spagnolo, con gli emendamenti apportati nel 2014 alla Ley de Propriedad Intelectual (cd. Canon AEDE): in particolare, l'art 32 individua una bipartizione fra 'parti non significative di news’ (nel qual caso l'aggregatore deve l'equo compenso, ma non necessita del consenso del titolare del diritto) e 'parti significative di news' (nel qual caso l'aggregatore deve l'equo compenso e necessita del permesso).
Al pari della legge tedesca, quella spagnola esclude dall’ambito applicativo i soggetti non commerciali (cioè quelli non aventi scopo di lucro); a differenza della legge tedesca, però, da un lato ricomprende nella tutela non solo le news in senso stretto, ma tutti i contenuti in qualche modo coperti da tutela autoriale, mentre dall’altro rende irrinunciabili i diritti all'equo compenso in capo ai titolari (facendo sì venir meno i rischi per la struttura competitiva del mercato, che sarebbero invece provocati dalla ‘disponibilità’ – di matrice tedesca - del diritto al compenso, ma allo stesso tempo rischiando di far crollare il mercato degli aggregatori di news nella sua interezza, come dimostrato per esempio dalla chiusura di Google News Spain).

Sulla base delle esperienze tedesca e spagnola, la Commissione Europea ha quindi lanciato, nell'ambito del progetto per il 'Digital Single Market', una consultazione pubblica relativa all'opportunità di introdurre nel panorama europeo i cd. neighboring rights[1].
Una simile proposta, anche tenendo momentaneamente da parte le ragioni logico-economiche inerenti, appare allo stato da scandagliare con rigorosa attenzione giuridico-sistematica e senza dimenticare il profilo teleologico: quest'ultimo, tanto più importante quanto più si consideri l'ancillary copyright come tassello del più vasto mosaico costituito dal summenzionato mercato unico digitale. Nello specifico, emergono, sotto il punto di vista prettamente giuridico, due argomentazioni che potrebbero opporsi con particolare tenacia, e sotto un duplice aspetto, all'adozione di una 'Google Tax' europea: la prima argomentazione - giurisprudenziale di livello europeo - sembrerebbe porre un limite all’introduzione di un ancillary copyright relativo alle attività di linking e di indicizzazione; la seconda - pattizia di livello internazionale - parrebbe negare la legittimità di un ancillary copyright esteso alle citazioni da articoli di giornale e opere similari.

Con riguardo alla prima questione, e cioè l’eventuale introduzione dell’ancillary copyright per il linking, è opportuno sottolineare che la Corte di Giustizia Europea ha fissato, nell'ambito del Case C-466/12 (meglio conosciuto come Caso Svensson) un principio per il quale «there is no copyright infringement when providing hyperlinks to freely accessible copyright-protected content»[2]. Nell'affermare tale principio (richiamato anche dall’Opinion dell’Advocate General nel successivo Case C-160/15, meglio noto come Caso GS Media), il giudice comunitario, pur partendo dall'assunto che l'ambiente digitale offre al pubblico numerosi strumenti per soverchiare e affogare anche lo spazio di tutela del diritto d'autore definibile ‘equo’, stabilisce che lo sfruttamento unfair da parte di un motore di ricerca o di un aggregatore di notizie si relaziona in maniera indissolubile con il perseguimento e il raggiungimento di un 'nuovo pubblico', cioè di un pubblico non predeterminato e quasi 'non desiderato' dal titolare del diritto[3]. È in tal modo posta una summa divisio in riferimento alla possibilità di classificare o meno l'attività di linking come comunicazione al pubblico ai sensi dell'art. 3 della Direttiva Infosoc: non ogni attività di linking costituisce una nuova comunicazione al pubblico (e dunque una violazione del diritto in capo al legittimo titolare), bensì solo quelle comunicazioni che lascino filtrare i contenuti protetti verso un pubblico differente da quello cui il titolare del diritto desiderava rivolgersi.
In altre parole, si è di fronte a un nuovo sfruttamento del contenuto (che giustificherebbe un pagamento) soltanto quando la messa a disposizione del pubblico riguardi un contenuto governato da MTP (misure tecnologiche di protezione, es. un sistema di digital rights management), e la cui comunicazione è perciò destinata dal titolare ad un pubblico ben delimitato e ben individuato; viceversa, considerate le peculiarità dell'ambiente digitale, in assenza di una simile predeterminazione, in assenza della ‘costruzione a tavolino' del pubblico di riferimento, il linking dell'opera tutelata non costituisce attività di comunicazione a un nuovo pubblico.
Fissato tale principio di riferimento, non occorre certo un lungo ragionamento per comprendere come l'ancillary copyright, potendo colpire non solo le comunicazioni di contenuti protetti da MTP destinate a un nuovo pubblico, ma anche le comunicazioni di contenuti non protetti da MTP e destinate a un pubblico non nuovo (le quali, a differenza delle prime, non dovrebbero essere subordinate né al consenso del titolare, né al pagamento di un equo compenso), finirebbe per porsi in contrasto con questo importante orientamento giurisprudenziale di matrice comunitaria, la cui rilevanza appare dirimente nel contesto della (non ancora completamente e compiutamente realizzata) traslazione in ambito digitale del bilanciamento fra prerogative autoriali e diritto all’informazione.

Tale lettura della Corte di Giustizia si mostra d'altra parte coerente con la normativa in vigore (Direttiva 2001/29/CE), laddove quest’ultima stabilisce che «non costituisce un atto di comunicazione al pubblico [...] la messa a disposizione su un sito Internet di collegamenti cliccabili verso opere liberamente disponibili su un altro sito Internet».

La Direttiva Infosoc costituisce, d'altronde, il necessario spunto sia per analizzare il quadro normativo europeo di riferimento che per introdurre la seconda questione, e cioè il discorso relativo al cd. diritto di citazione, diritto - quest’ultimo - derivante dalle obbligazioni di natura pattizia cui l'Unione Europea si è vincolata[4] e rispetto alle quali l'ancillary copyright appare in contrasto.
In via preliminare si può infatti notare che la Direttiva 2001/29/CE all'art. 5, numero 3, lettere c e d, stabilisce la possibilità per gli stati membri di prevedere eccezioni e limitazioni al diritto di riproduzione e di comunicazione «nel caso di riproduzione a mezzo stampa, comunicazione al pubblico o messa a disposizione di articoli pubblicati su argomenti di attualità economica politica o religiosa o di opere radiotelevisive o di altri materiali dello stesso carattere, se tale utilizzo non è espressamente riservato, sempreché si indichi la fonte, incluso il nome dell'autore, o nel caso di utilizzo delle opere o di altri materiali in occasione del resoconto di un avvenimento attuale nei limiti di quanto giustificato dallo scopo informativo e sempreché si indichi, salvo in caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore», nonché «quando si tratti di citazioni, per esempio a fini di critica o di rassegna, sempreché siano relative a un'opera o altri materiali protetti già messi legalmente a disposizione del pubblico, che si indichi, salvo in caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore e che le citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e si limitino a quanto giustificato dallo scopo specifico».
Tali previsioni della Direttiva Infosoc traducono in larga parte, nel diritto comunitario, la Convenzione di Berna sul diritto d'autore, la quale già nel 1886 riconosceva il diritto di libera citazione (‘right to quote’) dei contenuti presenti negli articoli di giornale, al fine di alimentare il dibattito pubblico e il progresso della cultura, considerati quali valori preminenti sulle aspettative dei titolari del diritto d’autore. Diritto, quello di citazione, il cui ambito è stato poi esteso, alcuni decenni dopo, in seno alla Conferenza di Stoccolma del 1967, mediante l’eliminazione dell’aggettivo ‘brevi’ dall’originaria formulazione ‘brevi citazioni’, a tutto vantaggio del contributo giornalistico all’alimentazione del dibattito pubblico[5].
Il dettato normativo della Convenzione palesa che il cardine attorno al quale ruota l'intero sistema del right to quote, e rispetto al quale l'ancillary copyright sembrerebbe in contrasto, è costituito dall'art. 10[6], il quale - secondo opinione consolidata – al ricorrere di talune necessarie condizioni (nello specifico: 1. che l’opera sia stata già legittimamente pubblicata; 2. che l’utilizzo delle citazioni sia compatibile con le ‘fair practices’ e non ecceda il proprio scopo), immette nell’ordinamento la facoltà di un uso del tutto libero della citazione, sottratta persino al regime dell’equo compenso e del previo consenso del titolare del diritto d’autore, ponendo di fatto il ‘right to quote’ un gradino più in alto rispetto al collaterale sistema delle eccezioni e limitazioni[7]. Come a dire che, in un simile caso, l’interesse pubblicistico al dibattito, alla libertà di manifestazione del pensiero e alla diffusione della cultura prevalgano senza alcun dubbio sull’interesse privatistico alla realizzazione di un guadagno derivante dall’opera dell’ingegno[8].
Sempre con riferimento al consenso dell’avente diritto, in relazione all’uso dell’opera tutelata, appare necessario spendere qualche parola per dar conto degli effetti anti-competitivi che l’introduzione di un ancillary copyright di livello europeo potrebbe comportare, dipendenti dalla costruzione in chiave di rinunciabilità ovvero di irrinunciabilità del diritto al compenso.
Nello specifico, un diritto rinunciabile comporterebbe un rischio duplice, poiché da un lato i maggiori aggregatori potrebbero ottenere per prassi la ‘concessione gratuita’ dei contenuti, in cambio del semplice ritorno di visibilità da loro garantito, a scapito dei competitor di minori dimensioni, costretti invece a pagare l'equo compenso; mentre, dall’altro, gli editori di minori dimensioni sarebbero presumibilmente costretti a rinunciare al proprio diritto al compenso per rendere più ‘appetibili’ i propri contenuti agli occhi degli aggregatori, a fronte degli editori più forti, i quali potrebbero invece continuare a pretendere il compenso.
Un equo compenso irrinunciabile potrebbe invece portare a uno scenario non più conveniente per gli aggregatori, costretti in ogni caso a pagare le fee, con il conseguente ipotetico collasso del mercato di riferimento.
Appaiono evidenti, in entrambe le ipotesi prospettate, le criticità per la struttura concorrenziale del mercato, le quali di certo non possono essere semplicemente addossate dal legislatore al regno dell’autonomia privata negoziale.
In ossequio alle argomentazioni sinora esposte, risultano chiari i profili di contrasto fra la ratio dell'ancillary copyright e le obbligazioni internazionali di natura pattizia cui l'Unione Europea è vincolata, le quali risultano peraltro in larga parte traslate in diritto comunitario mediante la Direttiva Infosoc.
Le ragioni giuridiche, sociali e finanche economiche che sin dalla Convenzione di Berna hanno spinto verso un'armonizzazione del diritto d'autore non solo europea, bensì internazionale, consistenti nell'equo contemperamento fra il substrato monetario della privativa autoriale e la prospettiva dello sviluppo culturale nell'ottica della libertà di pensiero e di comunicazione, escono peraltro rafforzate dall'intento europeo della creazione di quel Digital Single Market che persegue, fra gli altri, lo scopo di dare una comune anima non solo economica, ma anche culturale, agli stati membri. I neighboring rights appaiono, in questo senso, stridere con la duplice ratio pro-competitiva e pro-informazionale del percorso finora attuato in ambito comunitario.

D'altra parte, se la questione è giuridicamente complessa, non vanno poi trascurate le ragioni economiche.
In prima battuta, si potrebbe evidenziare come il pagamento di un equo compenso per l'utilizzo del contenuto (o di parte del contenuto) protetto da diritto d'autore vada a ristorare l'attività creativa, costituendo nient'altro che una declinazione di quel riconoscimento giuridico-economico al 'frutto dell'opera dell'ingegno a carattere creativo' che da sempre è connaturato al diritto d'autore.
Ma è davvero così, in ambito digitale? Il discorso risulta davvero così limitato e limitante? Se si guarda un po' oltre la superficie, in realtà, è possibile scorgere altre, più significative e complesse argomentazioni economiche volte a contemperare i contrapposti interessi di cui si diceva in apertura. Si scorge, soprattutto, in filigrana, l'interesse economico degli editori, meno diretto ma potenzialmente più remunerativo, a mantenere ed anzi, a valorizzare e a tutelare (piuttosto che a demonizzare), l'indicizzazione come fonte di visibilità dei contenuti.
Esempi come il già citato Google News sono lì a dimostrarlo: indicizzazione e linking, lungi dal costituire i nemici pubblici numeri uno della remunerazione dell'attività creativa-editoriale, rappresentano invece dei preziosi alleati nella diffusione delle notizie, e di conseguenza nell'ampliamento del bacino potenziale che un sito internet (e dunque il suo editore) è in grado di raggiungere: una visione lungimirante questa che, d'altra parte, si sta ridestando anche negli stessi editori, inizialmente in prima linea nel richiedere il pagamento di una fee, ora invece propensi a far scivolare via la richiesta. Questione anche, probabilmente, di potere contrattuale, di visibilità e di dinamiche di mercato.

La diffusione delle notizie, argomentazione già citata, rileva d'altronde anche sotto un ulteriore profilo, quello dell'interesse dei fruitori a una più ampia libertà d'informazione.
Libertà d'informazione che oggi è sempre più lontana dal profumo della carta stampata e sempre più vicina alla perfetta e infinita riproducibilità del digitale. Non è impossibile sostenere che, in un simile contesto, gli aggregatori di notizie più diffusi possano probabilmente costituire, oltre che una declinazione del principio della libertà d'informazione, un suo substrato e presupposto tecnologico. E se in ciò sarebbe forse possibile rinvenire analogie e parallelismi con il differente ma non confliggente affair Google Books, senz'altro i timori che più di qualcuno nutre in relazione a quest'ultimo (circa la creazione di una sorta di 'monopolio culturale' o di 'delega alla cultura' affidata a una multinazionale) non sono rinvenibili nel caso degli aggregatori, e per il minor peso specifico, in senso culturale, della news rispetto al libro, e per la pluralità di attori presenti nel mercato degli aggregatori di notizie, rispetto al caso più unico che raro rappresentato da Google Books nel panorama culturale-librario.
Il dibattito circa la valenza sociale degli aggregatori digitali di notizie, dunque, scevro da preoccupazioni monopolistiche, si presenta limpido e difficilmente contestabile: gli aggregatori costituiscono infatti uno strumento che garantisce l'effettività tecnologica della pluralità d'informazione, svolgendo dunque un ruolo particolarmente rilevante nell'ambito del progresso informativo moderno, rappresentando una degna risposta, e una soluzione da tutelare, a quell'encouragement of learning che anima il dibattito autoriale fin dagli albori.

[1] Le domande della Consultazione, conclusa il 15 giugno scorso, sono disponibili all’indirizzo https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/public-consultation-role-publishers-copyright-value-chain-and-panorama-exception.

[2] Un approfondimento sul caso è contenuto in P. SHERRELL, G. SMITH, CJEU decision in Svensson – Hyperlinks to freely available content are permitted, consultabile all’indirizzo http://www.twobirds.com/en/news/articles/2014/global/cjeu-decision-in-svensson-hyperlinks-to-freely-available-content.

[3] La definizione esatta di ‘nuovo pubblico’, così come si legge nella sentenza, è «un pubblico che non è stato preso in considerazione dal titolare dei diritti nel momento in cui ha autorizzato la pubblicazione dell’opera». Per un approfondimento sul Case C-160/15 si rimanda a G. DENNIS, C. DANIEL, Europe - When is hyperlinking lawful?.

[4] Non è un caso che il Considerando numero 15 della Direttiva medesima reciti «La Comunità e la maggior parte degli Stati membri hanno già firmato i trattati e sono già in corso le procedure per la loro ratifica. La presente direttiva serve anche ad attuare una serie di questi nuovi obblighi internazionali».

[5] Per approfondimento, si veda ‘Understanding Ancillary Copyright in the global intellectual property environment’, Computer & Communications Industry Association.

[6] Se ne riporta il testo: «It shall be permissable to make quotations from a work which has already been lawfully made available to the public, provided that their making is compatible with fair practice and their extent does not exceed that justified by the purpose, including quotations from newspaper articles and periodicals in the form of press summaries».

[7] Questa è, inoltre, l'interpretazione di free uses che emerge nell'ambito della World Intellectual Property Organization. Per una dettagliata analisi, anche in chiave comparatistica, sul rapporto fra Convenzione di Berna e ancillary copyright si rimanda a ‘Understanding Ancillary Copyright in the Global Intellectual Property Environment’, White Paper, Computer & Communications Industry Association.

[8] Non bisogna inoltre dimenticare che la Convenzione di Berna è inclusa nei cd. accordi TRIPS, i quali fanno parte dei WTO agreements: tale considerazione risulta particolarmente significativa, alla luce del fatto che tali accordi pongono in capo agli stati facenti parte della World Trade Organization l’obbligo di consentire a ciascuno il godimento del diritto di citazione da un’opera che sia stata preventivamente e legittimamente pubblicata.